Quando sentiamo parlare di aborto terapeutico intendiamo quello che, in medicina, viene definito come "interruzione volontaria di gravidanza" (IVG). L'IVG può essere effettuata in caso di problemi di salute della madre o gravi complicanze nello sviluppo del feto.
Si tratta dell'unica forma d'interruzione volontaria della gravidanza legalmente concessa in Italia anche dopo il novantesimo giorno di gravidanza.
Prima di eseguire l'interruzione dunque, il personale medico deve accertare le condizioni fisiche di madre e feto, rilasciare un certificato che attesti la situazione e poi, in base al quadro generale e alla settimana di gravidanza in cui ci si trova, procedere attraverso un trattamento farmacologico o una piccola operazione chirurgica.
Cos'è l'aborto terapeutico e cosa fare
L'aborto terapeutico è un processo medico che pone fine ad una gravidanza a causa di ragioni legate allo stato psicofisico della donna o di salute del feto.
Ciò significa che quando una gravidanza comporta un effettivo rischio grave per la salute (e lo stato mentale) della gestante, allora si può procedere ad una interruzione di gravidanza che si attua in casi specifici (li vedremo dopo) e solo al termine di un'attenta valutazione medica ad opera di ginecologici e altri specialisti.
Una volta certificata la situazione la donna ha facoltà di sottoporsi al trattamento abortivo e formulare preferenze riguardo la tipologia d'interruzione di gravidanza da adottare.
L'aborto terapeutico può infatti avvenire attraverso la somministrazione di farmaci o tramite un intervento chirurgico.
- Aborto terapeutico farmacologico: di solito rappresenta la scelta migliore entro le prime nove settimane. Tale procedimento prevede l'utilizzo di un farmaco a base di mifepristone (oggi si usa la celebre pillola RU486) seguita da un prostaglandinico. Il primo farmaco inibisce l'azione del progesterone (che quindi interrompe la gravidanza), mentre il secondo stimola le contrazioni per poter espellere il feto dall'utero
- Aborto terapeutico chirurgico: dopo le nove settimane o in presenza di esigenze cliniche si appronta una piccola operazione per asportare il contenuto dell'utero. Ciò può avvenire tramite raschiamento (con un piccolo strumento tagliente che viene inserito nella vagina per rimuovere il prodotto della gravidanza) o per aspirazione tramite una sottile cannula
La donna però non può avere sempre l'ultima parola sulla scelta, poiché per evitare spiacevoli (e pericolose) controindicazioni si deve tenere conto dello stato della gravidanza, delle possibili controindicazioni, nonché di eventuali allergie che potrebbero rendere impossibile il ricorso a determinati farmaci.
Se però il quadro clinico si dovesse compromettere in modo repentino, l'urgenza del caso cancellerebbe ogni facoltà di scelta, mettendo nelle mani dei medici la responsabilità di scegliere la strada migliore per tutelare la salute della paziente.
Quando si fa l'aborto terapeutico
L'aborto terapeutico è previsto dal nostro ordinamento all'interno della Legge 194 del 1978 che norma le regole per l'interruzione di gravidanza.
Secondo le leggi italiane una donna può decidere d'interrompere la propria gravidanza solo entro i primi 90 giorni della gestazione – ossia entro il primo trimestre di gravidanza – a meno che non subentrino importanti motivazioni di tipo medico quali:
- Condizioni di salute che, in caso di proseguo della gravidanza, metterebbero in grave pericolo la salute della futura mamma. Quando una donna per esempio soffre di determinate malattie cardiovascolari o renali, le implicazioni di una gravidanza potrebbero minarne l'incolumità
- La scoperta di patologie che necessitano di trattamenti specifici e che comporterebbero un elevato rischio per il corretto sviluppo del feto. È il caso di alcuni tumori – come il cancro al seno o all'utero – che se contrastati con chemioterapia andrebbero con ogni probabilità a danneggiare irrimediabilmente il feto
- Malformazioni fetali tali da comprometterne in modo irreversibile lo stato di salute anche qualora riuscisse a nascere: alterazioni nel sistema nervoso, sindromi cromosomiche, sviluppo ritardato del feto ecc..
Entro quanto su può praticare l'aborto terapeutico?
Appurato che l'interruzione di gravidanza per motivi medici si possa effettuare dopo i primi 90 giorni di gravidanza, esiste un limite entro cui anche questa tipologia di aborto non può più essere praticata?
La legge non mette nero su bianco un confine preciso, ma sottolinea la possibilità di abortire fino a quando il feto non abbia ancora la possibilità di vivere autonomamente fuori dall'utero.
Solo le "Raccomandazioni per le cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse" (note come Carta di Firenze) del 2006 si esprimono dicendo che non si prevede nessuna cura intensiva fino ai nati entro le 22+6 settimane, ma cure confortevoli di accompagnamento alla morte.
I casi in cui non si ricorre all'aborto terapeutico
Non si può più praticare l'aborto terapeutico invece quando:
- La gravidanza è ormai inoltrata
- Non sussistono problemi per la tutela della salute della madre
- Non si riscontrano gravi problemi nello sviluppo del feto
Effetti collaterali fisici e psicologici
Quando si decide di porre fine ad gravidanza vi sono sempre degli aspetti collaterali sia fisici che psicologici di cui tenere conto, anche quando l'aborto è dettato da motivazioni legate alla salute di donna e feto.
In primo luogo, sia l'aborto farmacologico che quello chirurgico possono comportare importanti strascichi successivi all'intervento. Se infatti l'assunzione dei farmaci abortivi può causare importanti episodi di nausea, problemi gastrointestinali, mal di testa e sanguinamento vaginale, l'operazione chirurgica porta con sé il rischio d'infezioni e danni all'utero, talvolta anche permanenti.
L'anestesia stessa – generale o spinale che sia – può provocare spiacevoli episodi di vomito e sonnolenza.
Oltre ai contraccolpi di tipo fisico però, non sono da sottovalutare nemmeno le ripercussioni psicologiche dietro alla perdita. Non è raro che in situazioni simili si sviluppino sensi di colpa e di inadeguatezza, arrivando a colpevolizzare in modo più o meno inconscio il proprio corpo per quanto accaduto.
Un simile scenario può portare facilmente a depressione, ansia e perfino istinti suicidi.
Per questo è molto importante che le pazienti trovatesi ad affrontare un simile trauma vengano seguite da un professionista in grado di fornire adeguato supporto sia durante le settimane precedenti all'aborto, sia nelle settimane e nei mesi successivi.
Ricordiamoci che farsi aiutare non è una vergogna ma, soprattutto in queste situazioni, una necessità.