Cosa significa essere mamma di una figlia transgender? Cinzia non ne aveva idea, almeno fino a quando la figlia Greta, a 12 anni, non le sbatté in faccia quella verità che per anni aveva maturato e custodito dentro di sé: «Mamma, sono femmina».
Cinzia quella dichiarazione se la aspettava: un po’ perché poco prima l’aveva avvisata l’ex marito, con cui Greta si era confidata il giorno precedente, un po’ perché i segnali sua figlia li aveva lanciati già dalla prima infanzia, quando a 3 anni giocava con le Barbie e a 6 aveva chiesto ai genitori lo zaino rosa con i brillantini per il primo anno di elementari.
In effetti più volte Cinzia aveva digitato nella barra di ricerca di Google “maschio che si veste da femmina”, e aveva chiesto il parere a una neuropsichiatra infantile, che tuttavia aveva sbagliato diagnosi. Ma sentire quelle parole uscire, chiare e tonde, dalla bocca di sua figlia, era diverso.
«Per me è stata una liberazione perché temevo che Greta fosse malata e non sapevo come salvarla» racconta. È stato come risvegliarsi da un sonno profondo. A causa di specialisti sbagliati e disinformazione sulla disforia di genere (era il 2018 e in Italia di identità di genere se ne discuteva decisamente meno di oggi) per anni non aveva ascoltato quello che sua figlia voleva spiegarle e per cui, se non avesse trovato il coraggio di svuotare il sacco, si sarebbe uccisa.
«Non sapevo neanche cosa volesse dire essere transgender. Ho iniziato a leggere, studiare, prendere consapevolezza di cosa fosse la varianza di genere» spiega Cinzia. Da quel giorno sono iniziati due viaggi: quello di Greta, oggi 17enne, che ha trovato la serenità dopo l’inizio dell’iter psicologico all’ospedale Careggi di Firenze, e quello di Cinzia, che, attraverso il percorso della figlia, ha scoperto nuovi orizzonti, abbattuto tabù e conosciuto se stessa.
«Ha segnato una svolta anche nella mia vita, è stato come liberarmi di stereotipi, pregiudizi e paranoie, e ad oggi penso che se avessi saputo a 20 anni quello che so oggi, avrei vissuto meglio. Grazie a Greta è cambiato il mio modo di vedere il mondo».
Quanti anni aveva Greta quando ha iniziato a nutrire dubbi sulla propria identità di genere?
Non ha mai avuto dubbi. A 3 anni già manifestava una varianza di genere che esprimeva attraverso i suoi gusti, le sue preferenze, i giochi. Greta si identificava in una femmina ed era convinta che io e il suo papà fossimo cattivi perché la trattavamo da maschietto. Eravamo preoccupati perché non capivamo cosa avesse. Crescendo i segnali si sono accentuati e la varianza di genere si notava di più. In prima elementare ha voluto lo zaino delle Winx e veniva considerata una bambina strana, era isolata e senza amici. All’epoca era seguita da una neuropsichiatra, secondo la quale Greta doveva comportarsi da maschietto fuori mentre a casa poteva atteggiarsi da femminuccia. Io, che al tempo ero ignorante in materia, seguivo le sue istruzioni.
Quindi non c’è stato un vero e proprio coming out?
Lei il coming out lo faceva quotidianamente, ma non veniva ascoltata. C’è stato però un giorno in cui suo papà le chiese apertamente: “Ti senti femmina?”, e lei rispose: “Io sono femmina”. Aveva 12 anni, l’età dello sviluppo. Lui mi chiamò e me lo raccontò. Qualche settimana prima avevo cercato su Internet “maschio che si veste da femmina”, e mi era uscito, tra i risultati, il termine “transgender”, accompagnato da percentuali bassissime di casi. «Dai non sarò così sfortunata» avevo detto a un’amica.
Io non sapevo come comportarmi. Mi uscì sui social la pubblicità di un libro in cui una mamma raccontava la storia della sua figlia transgender. La contattai e dopo un’oretta eravamo al telefono. È stata la svolta: ci ha indirizzato all’ospedale Careggi di Firenze, l’unica struttura in Italia a trattare adeguatamente la varianza di genere in età evolutiva. Ho iniziato a leggere, studiare, prendere coscienza e consapevolezza di questa realtà, e ho capito che transgender si nasce. Sono classe ’67, sono cresciuta in una famiglia stereotipata e patriarcale, perciò è stata una scoperta anche per me, mi sono liberata di tabù e paranoie.
Cosa significa per un genitore sentirsi dire da un figlio che non si riconosce in quel corpo?
Non è facile per un genitore intraprendere un percorso del genere ma, a mio avviso, è doveroso nei confronti del figlio. Per me è stata una liberazione perché temevo che Greta fosse malata e non sapevo come salvarla. Quando ho parlato con la mamma autrice del libro e ho scoperto che esistevano delle soluzioni, mi sono sentita bene. Ma sono diversi i modi di reagire. Tanti genitori hanno paura, si vergognano, temono il giudizio altrui. Alcuni distruggono la vita dei figli decidendo per loro e insistendo con frasi del tipo: “Magari cambi idea”, “È troppo presto”.
Come le sei stata vicino?
Con l’accoglienza e l’ascolto. Dopodiché, per me la chiave di tutto è leggere. Ricordo che stavo sveglia la notte per informarmi e trovare un numero da chiamare il giorno dopo. Mi ero resa conto di aver trascorso la vita, fino a quel momento, senza conoscere l’esistenza di questa realtà. Tuttora leggo tanto, perché sono temi in evoluzione e scopro continuamente cose nuove.
Non tutti i genitori reagiscono positivamente…
Purtroppo il genitore tende a nutrire aspettative sul figlio, che, se vengono disattese, provocano ansia e disagio. Ma esistono momenti nella vita in cui quello che il genitore vuole o sente deve andare in secondo piano. Greta aveva 12 anni e io e il mio ex marito avevamo il compito di prenderci cura di lei. È logico che le paure c’erano, ma in quel momento lei aveva bisogno di noi, dovevamo seguire i suoi tempi, e non quello che avremmo desiderato io e lui. È importante lasciare che siano i figli a decidere della loro vita, non sperare che realizzino i nostri desideri.
Qual è l’iter che Greta ha seguito?
Ha intrapreso prima un percorso psicologico, a cui nel tempo se ne è aggiunto uno endocrinologico, necessario per sottoporsi ai trattamenti ormonali che sta proseguendo tuttora. Tre anni fa, poi, ha ottenuto il cambio anagrafico, fortunatamente prima dell’introduzione del Greenpass che, con la diffusione dei dati anagrafici, l’avrebbe messa a disagio. A volte si sente dire: “Mia figlia ha finito il percorso”, ma è sbagliato, innanzitutto perché siamo tutti in continua evoluzione, e poi perché esistono persone transgender che non vogliono assumere ormoni o sottoporsi all’intervento. Domande del tipo “Come ti chiamavi prima?” o “Hai già fatto l’operazione?” sono inappropriate e dolorose. Greta è Greta a prescindere dal percorso affrontato.
Non ha mai avuto paura che fosse una fase passeggera e che Greta un giorno potesse pentirsene?
No, mai. L’unica mia preoccupazione era legata alla discriminazione e l’emarginazione che mia figlia subiva o all’assenza delle istituzioni, che tuttora non accolgono minimamente questa realtà. Su media e giornali si leggono titoli aberranti, gente laureata si permette di esprimersi sui minori senza avere alcuna conoscenza del tema.
Greta ha un fratello gemello. Lui come ha vissuto il suo percorso?
Lui non aveva dato un nome alla cosa, semplicemente l’aveva accolta. «Vieni qua Greta che ci sono le cose da femmina che piacciono a te» le diceva. Non gliene fregava molto. Siamo sempre più noi adulti a mettere paletti e creare stereotipi. Sono convinta che anche a scuola non sarebbero emersi problemi se non fosse stato per i genitori.
In che senso? L’esperienza di Greta a scuola è stata negativa?
È stata terribile. Alle elementari era emarginata, ignorata, la trattavano come se non esistesse. Alle medie andò peggio. Greta iniziava a svilupparsi ed entrò in depressione. Da parte dei genitori ci fu tanta ipocrisia. Io e il papà di Greta organizzammo una riunione per spiegare agli altri genitori quello che aveva nostra figlia, e in quell’occasione loro si dimostrarono comprensivi, ci abbracciarono e baciarono. Ma Greta continuava a stare male. Scoprii poco dopo che continuava ad essere esclusa proprio dai figli di coloro che ci avevano assicurato: “Mia figlia adora Greta”. Quando lei arrivava a scuola alzavano gli occhi al cielo e si chiudevano in un cerchio. Lei stava un passo indietro ad aspettare che le dessero il permesso di passare. Per quanto riguarda gli insegnanti, solo in due la ascoltavano. Oggi frequenta la quarta Liceo Artistico nella scuola dove il preside Gianluca Dradi ha introdotto il registro alias, e finalmente si trova a suo agio.
Negli anni è cambiato il tuo pensiero sul mondo transgender?
Ad oggi mi vergogno di quello che un tempo pensavo sulle persone transgender. Prima di Greta, ero ignorante sul tema. Fino a cinque o sei anni fa, tra l’altro, in Italia se ne parlava pochissimo. Fu la mamma autrice del libro che, conoscendo l’inglese, fece ricerche più approfondite e mi consigliò delle letture.
Oggi Greta è felice?
È serena. Essendo nella fase dell’adolescenza ha i suoi momenti no, ma non è sicuramente la varianza di genere a rendere le sue giornate tristi.
Hai fondato l’associazione “Affetti Oltre il Genere”. Quante famiglie si rivolgono a voi e che tipo di supporto cercano?
I tesserati sono circa duecento, ma riceviamo chiamate anche da altri genitori che ci contattano solo per chiedere informazioni. Vogliono sapere dove devono andare con i loro figli, come devono comportarsi con la scuola e a livello burocratico. Per il cambio anagrafico, ad esempio, non esiste una regolamentazione chiara: i genitori sono costretti a rivolgersi a un centro multidisciplinare, uno psicologo o un endocrinlogo che rilascia una relazione. A quel punto si contatta un avvocato, che la porterà in Tribunale. Se l'udienza non va a buon fine la prima volta, occorrerà riprovarci o ricorrere a un Ctu.
Cosa manca al nostro Paese perché la transessualità non sia più un tabù?
Siccome transgender si nasce, le istituzioni devono accogliere adeguatamente questa realtà fin dall’asilo preparando adeguatamente le figure – nella scuola, nella sanità, tra le Forze dell’Ordine – che hanno a che fare con l’infanzia. Quando Greta frequentava la seconda media e aveva iniziato a non rispondere al nome, la vicepreside le aveva chiesto: “Ma non è troppo presto? Sei sicura?”. Con il Governo attuale, poi, riceviamo attacchi da ogni dove. Se potessero, sopprimerebbero questa realtà.