Che sia per un capriccio o una marachella, tutti bambini prima o poi assumono atteggiamenti sbagliati che costringono il genitore ad intervenire per “aggiustare la rotta”. Per molto tempo, le punizioni e i castighi sono stati considerati il sistema più efficace per risolvere simili situazioni e impartire un po’ di disciplina, ma siamo davvero sicuri che si tratti del modo migliore per educare i nostri figli? Da anni la risposta degli esperti è solo una: assolutamente no.
Educare e non reprimere
Urlare, togliere un giocattolo o impedire di uscire a giocare, sono azioni che nell’immediato possono illudere di aver smorzato ogni intemperanza (e magari regalare qualche momento di tranquillità), ma in realtà si tratta di misure poco utili ai fini della crescita del bambino, perché indirizzano il rapporto sui binari del timore e non del rispetto o dell’autonomia. Educare infatti non significa ridurre all’obbedienza, ma insegnare ad attuare scelte e comportamenti corretti in modo indipendente, senza bisogno di un cane da guardia che lo rimetta in riga.
Quando assumono un atteggiamento da noi considerato poco corretto, i bambini non stanno volontariamente facendo un torto a noi adulti: semplicemente non possiedono ancora tutti gli strumenti per capire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, dunque necessitano di scoprire il mondo e, talvolta, vivere anche esperienze che comportano reazioni negative.
Mettere in castigo un bambino che si rifiuta di mangiare le verdure o che non vuole fare i compiti avrebbe il solo scopo di lanciare al piccolo un messaggio: “Devi fare questo perché se no ti viene tolto qualcosa”. Tutto ciò però non solo non crea apprendimento (il bambino non capisce effettivamente perché debba comportarsi in un certo modo), ma rischia d’innescare una spirale di rimproveri che porta il piccolo ad essere costantemente ripreso e, di conseguenza, a sentirsi sminuito e frustrato.
«Essere punito non aiuta il bambino a imparare come avrebbe potuto fare da solo – ci spiega la pedagogista – Lorella Boccalini – capisce solo che ha sbagliato, senza sapere né le motivazioni, né il modo per correggersi. In generale tutto ciò che nasce dall’onda emotiva o dalla frustrazione di non essere ascoltati, come urla e minacce di castighi inattuabili (“Niente più TV per un anno”), non funziona».
Quasi superfluo poi soffermarsi sull’inutilità della violenza fisica, ormai ampiamente disconosciuta dalla pedagogia e certamente dannosa per l’equilibrio psicologico dei bimbi. Un recente studio dell’Università del Michigan, ad esempio, ha dimostrato una volta in più come le sculacciate (e in generale le punizioni fisiche) non comportino nessun beneficio dal punto di vista educativo, ma solo ripercussioni sull’autostima dei giovani puniti.
Il dialogo come unica via per la crescita
Nelle dinamiche della quotidianità è perfettamente normale che ogni tanto mamme e papà perdano le staffe di fronte alle intemperanze dei figli – nemmeno il più paziente dei genitori possiede i superpoteri! – tuttavia sono proprio quelli i momenti in cui occorre trarre un profondo respiro e adoperarsi per instaurare un dialogo. Ma come?
La prima cosa da fare è quella di uscire dalla logica della caserma: crescere i figli non significa addestrare tanti bravi soldatini, ma far fiorire talenti e capacità di una persona nel rispetto del prossimo e della società che lo circonda. Questo naturalmente implica l’inesistenza di un unico modo giusto per correggere i comportamenti, ma tanti approcci tagliati su misura (anche in base all’età) per venire incontro alle esigenze del singolo bambino e instaurare un rapporto di fiducia e rispetto tra genitore e figlio. Compiere una simile scelta educativa non significa essere genitori mollaccioni o permissivi, anzi implica uno sforzo decisamente più impegnativo rispetto alla “scorciatoia” della punizione.
Pertanto, invece di sgridare e arrabbiarci, spieghiamo ai bambini perché quella particolare azione sia sbagliata, mostrando loro le conseguenze e i rischi di ciò che stanno facendo. Se ad esempio il bambino si mostra manesco nei confronti degli altri, non umiliamolo davanti a tutti con una scenata ad alta voce. Meglio prenderlo da una parte e raccontargli che mettere le mani addosso non è una cosa affatto piacevole (“A te piacerebbe?”) e che se continua così nessuno vorrà più giocare con lui.
Per i capricci è consigliabile invece lasciare che lo sfogo di emotività si plachi e poi, senza cedere alle richieste, cercare un punto d’incontro e di collaborazione, magari mettendola sul piano del gioco (“Ora dobbiamo proprio andare via dal parco giochi, ma vediamo chi trova più macchine rosse sul tragitto verso casa”). Spesso infatti un capriccio non è altro che una richiesta d’attenzione nei confronti di mamma o papà.
Prevenire è meglio che sgridare: il ruolo dell’esempio
Sarà retorico, sarà banale, ma fornire ai bambini un modello attraverso i nostri stessi comportamenti rimane il modo migliore per ridurre al minimo i momenti di scontro e di stress. Dal linguaggio alla gentilezza nei confronti del prossimo, dall’educazione a tavola al tono di voce, i bambini ci guardano e assorbono come spugne tutto ciò che vedono.
Certo, ogni tanto ci scappa qualche atteggiamento sbagliato, ma in quei casi è sempre meglio mostrare pentimento e far capire ai piccoli che ciò che è appena accaduto non dovrebbe essere ripetuto. Stesso approccio può essere adottato quando, esasperati da situazione particolarmente concitate (un capriccio particolarmente violento o un atteggiamento molto scorretto), si arriva a sbottare e strepitare per riportare l’ordine. In questo caso, dopo aver ripreso il bambino, chiediamogli scusa per aver esagerato con la nostra reazione. Così facendo il bimbo capirà che gli eccessi di rabbia e grida rimangono da censurare sempre e comunque.
«Non tutto, però, può essere insegnato tramite l’esempio diretto. – specifica Boccalini – Un genitore, ad esempio, non deve andare alle nove di sera per far vedere al figlioletto che quello è l’orario giusto per coricarsi. Per simili questioni basta stabilire regole e rituali chiari e precisi entro cui il bambino sa che deve fidarsi di ciò che dice il genitore, il quale rimane comunque la figura autorevole e sulla quale ricadono le responsabilità educative»