Una volta avvenuta la fecondazione l'uomo non può più ritirare il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita (PMA), anche se nel frattempo la coppia si è separata.
A dirlo è la sentenza n. 161 della Consulta con quale la Corte si è espressa in favore di una donna che chiedeva di utilizzare gli embrioni congelati del partner nonostante la fine della loro relazione (e il netto rifiuto dell'ex).
La coppia aveva fatto ricorso alle tecniche di PMA nel 2017, ma in seguito ad un problema di salute da parte di colei che avrebbe dovuto portare avanti la gravidanza, l'embrione generato dalla fecondazione assistita non venne impiantato, ma congelato in attesa di un miglioramento delle condizioni della paziente.
Nel 2019 però la coppia decise consensualmente di separarsi e l'anno successivo la donna chiese di poter procedere ugualmente all'impianto per poter cominciare da sola il proprio percorso verso la maternità.
A quel punto l'ex-compagn ritirò formalmente il consenso precedentemente prestato, dando inizio ad una spinosa battaglia legale che ha finito per interessare persino il massimo organo di garanzia giuridica del Paese, il quale è stato interrogato riguardo la costituzionalità di una norma (quella contenuta nella Legge 40 che regolamenta in materia di PMA) che prevede l'irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione anche a costo di ledere la libertà di un soggetto che non vuole essere obbligato a diventare genitore.
La pronuncia finale si è però conclusa in favore della controparte femminile.
«L’accesso alla procreazione assistita comporta per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze» si legge nelle motivazioni della sentenza e benché gli stessi i giudici abbiano riconosciuto la spiacevole «impossibilità di soddisfare tutti i confliggenti interessi coinvolti», la decisione è stata presa per tutelare l'integrità fisica e psichica della donna.
Secondo la Consulta infatti, nel momento cui l'uomo aveva firmato il suo consenso alla fecondazione assistita, questo si era implicitamente dichiarato consapevole della possibilità di diventare padre.
Per questo, davanti alla necessità di garantire non solo i diritti della donna, ma anche la dignità dell'embrione la Corte non ha reputato irragionevole comprimere il diritto all'autodeterminazione dell'uomo, poiché la stessa Legge 40 prevede già l'impossibilità di revocare il consenso dopo la fecondazione dell'ovulo.
La spiegazione dell'esperta
Da punto di cita giuridico, quando una disputa legale riguarda temi delicati come un trattamento sanitario, tutti i diritti vengono sempre messi sulla bilancia in modo da valutare se e quando uno possa prevalere sull'altro. Anche quando un criminale viene messo in carcere, ad esempio, si procede a prevaricare al sacro diritto della libertà individuale a fronte dei diritti della collettività.
Lo stesso è accaduto in questo caso, con i diritti dell'uomo a non dover essere obbligato a diventare padre da un lato e i diritti della donna (e dell'embrione) dall'altro.
«Nella nostra impostazione bioetica, quando si parla di PMA l’ovulo fecondato è considerato un soggetto da tutelare e la dignità dell’embrione e il diritto alla tutela psicofisica della donna risultano prevalenti, in un contemperamento d’interessi, rispetto al diritto all’autodeterminazione dell’uomo e a quello di avere una famiglia unita per il futuro nascituro – spiega a Wamily Gioia Saitta, esperta in Diritto di Famiglia e mediatrice familiare – Questa sentenza nasce dunque dalla proposta avanzata dal Tribunale di Roma che ha chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla costituzionalità della Legge 40 che dichiara irrevocabile il consenso del genitore dopo la fecondazione».
«Certo – prosegue Saitta – questo comporta il fatto che poi il padre dovrà partecipare al mantenimento del bambino, perché di fatto si tratta di suo figlio, non si può avviare un processo di disconoscimento».