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29 Maggio 2023
18:00

Francesca Bubba, attivista per la maternità: “La società discrimina i genitori. C’è una comicità irriverente anti-bambini”

Francesca Bubba, attivista per la maternità, racconta a Wamily il suo punto di vista sull'essere madri oggi, tra servizi per l'infanzia inadeguati, stereotipi obsoleti sulla maternità e una crescente dose di insofferenza verso i più piccoli.

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Francesca Bubba, attivista per la maternità: “La società discrimina i genitori. C’è una comicità irriverente anti-bambini”

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Trent’anni, capelli ramati, e il piglio di chi non ha intenzione di lasciar correre di fronte alle ingiustizie che pesano sulle madri e agli stereotipi obsoleti sulla maternità. Francesca Bubba, giovane mamma di Mattia e attivista per la maternità, ha raccontato a Wamily il suo punto di vista sull’avere figli oggi in Italia. Lei, che rimarca il «valore» della voce, usa la sua per rivendicare i diritti delle madri, a volte relegate all’«equazione sacrificio-amore». Servizi per l’infanzia inadeguati, misure insufficienti per supportare mamme e papà e una comicità irriverente sui più piccoli, tacitamente accettata, sono lo specchio di una società che «discrimina ancora fortemente i genitori».

Da cosa è nata la tua vocazione per l’attivismo sulla maternità?

Il mio impegno di attivismo nasce da un’urgenza. Sono cresciuta in un paesino di 6000 anime in cui le cose che avevo da dire sembravano sempre fuori luogo. Poi mi sono trasferita a Roma, e lì invece avevo la sensazione che la mia voce si disperdesse nel caos della metropoli. Dopo essere diventata mamma e aver iniziato a raccontare i frammenti della mia maternità online, ho capito che le voci hanno un valore. Ho iniziato dalla mia, per accogliere e dar valore a tutte le altre.

Perché oggi c'è bisogno di parlare di maternità, di genitorialità, di figli?

La maternità è costellata da un’infinità di stereotipi.  La società ha un disegno ben preciso di come debba essere la madre e di come debba crescere e amare la sua prole. Per non perdermi in fiumi di parole a riguardo, scelgo quello che per me rappresenta il più dannoso di tutti: la cieca devozione delle madri e l’equazione sacrificio-amore. Questa elargizione del nostro tempo è dannosa per molti versi: la devozione cieca nuoce a mamme e figli in maniera irrimediabile. Eppure è ancora la madre degli stereotipi sulla maternità.

Cosa significa, per te, maternità?

Maternità, per me, è libertà. È questo che rappresenta per me. Contempla, quindi, il totale rispetto che la maternità possa essere per tutte una cosa diversa.

È cambiato il tuo modo di vedere la maternità da quando sei mamma? Come la vivi?

Io sogno di essere madre da sempre. Per me la maternità è stato un desiderio bruciante ma da quando sono la madre di Mattia Levi, è ancora più bello di quanto sognassi.

Per me, al netto dei privilegi che mi permettono di godermi la maternità, le difficoltà con cui la maternità si scontra sono fuori casa. Mi spiego meglio: le barriere che ci impediscono di godere al 100% delle nostre maternità hanno origine sociale, culturale e istituzionale. Se fuori si perpetrasse una concezione più sana della maternità e la si mettesse in pratica, di fatto vivremmo in condizioni più favorevole alla nostra autodeterminazione, che non deve essere messa in pausa o stop a seguito della nostra scelta riproduttiva.

Trovi che la narrazione comune della maternità sia sbagliata, o tenda a  “standardizzarla”?

Parto da lontano: il cibo è una delle mie passioni. Per me non è mai stato solo nutrimento, ma un vero e proprio piacere profondo. Quando sono rimasta incinta ho iniziato a soffrire di nausee fortissime. Non solo non riuscivo mangiare (a volte neanche bere) ma stavo malissimo giorno e notte, senza pause. Anche fare le cose che amavo, tipo andare al mare, erano un incubo. A volte riuscivo a mangiare un omogeneizzato o un purè al giorno, e stop. Per mesi. A questo si aggiungeva la preoccupazione per mio figlio, temevo che non crescesse vista la mia difficoltà alimentare (nonostante il medico mi rassicurasse a riguardo). Desideravo quella gravidanza da tutta la vita, ma piangevo tutti i giorni per il malessere. Tutto, però, intorno a me mi diceva che ero un’ingrata e già una pessima madre. Dovevo essere felice. “Pensa a tuo figlio”, mi dicevano. Io a mio figlio ci pensavo e provavo un’infinita tenerezza e amore nei suoi confronti, ma stavo male. E a sorridere proprio non ci riuscivo. Un’altra frase con cui la società terrorizza le donne gravide è “se piangi e non sei felice tuo figlio lo sente. Gli fai del male!”. Come può, invece, far bene a mio figlio una cosa che a me non viene naturale?

Mi sono convinta che la cosa migliore da fare, fosse assecondarmi e circondarmi di silenzio. E mio figlio cresceva forte e sano, stava bene. Dopo poco tempo sono stata meglio. Dopo poco è arrivata la pace.

È difficile tradurre in parole il senso di inadeguatezza che le aspettative della società provocavano in me, e mio figlio non era ancora nemmeno nato. Racconto questa esperienza per far capire quanto, in realtà, la narrazione della maternità inizi a far del male ancor prima dell’essere madre.

Quali sono i servizi che, più di tutti, servirebbe mettere in campo per agevolare le  mamme?

I servizi per l’infanzia, tanto per cominciare. Non solo si deve garantire una sufficiente copertura, ma anche aumentarne gli standard qualitativi. Inoltre, bisogna garantire misure di welfare, congedi parentali adeguati e che gli spazi culturali e sociali siano finalmente davvero a misura di famiglie. Insieme a tutto questo, però, si deve lavorare sul fronte culturale: se le misure sono ancora inefficaci, è perché la società discrimina ancora fortemente i genitori.

Trovi che oggi stiamo assistendo a una certa dose di insofferenza nei confronti della maternità?

Sì, e credo che anche gli spazi definiti femministi abbiano ancora un problema con la maternità. Si fa fatica a sospendere il giudizio sulle persone che hanno compiuto scelte riproduttive come quelle delle madri. Inoltre, c’è anche un grande problema con una certa comicità: sembra che sui genitori e sui bambini, in fondo, si possa dire davvero di tutto. (Penso alla tazza “un po’ la capisco la Franzoni che è andata virale. Orrore.)

Ti stai impegnando anche contro la violenza ostetrica.

La proposta di legge a cui sto lavorando con il team che ho creato si prefigge l’obiettivo di tracciare e arginare la violenza ostetrica. Siamo a buon punto, stiamo avviando un’indagine statistica intanto per tracciarla con precisione, in collaborazione con due università italiane. C’è molto lavoro da fare, ma siamo fiduciose.

Parli di maternità, ma con un approccio che vuole prendere le distanze  dalla divulgazione scorretta o improvvisata sulla genitorialità. In cosa credi di contribuire a fare la differenza?

Tento di tracciare nuove linee narrative della maternità, che si discostano da quelle che la società patriarcale ha tracciato per noi. Cerco di farlo, però, nel pieno rispetto dell’intimità di mio figlio. Non ho mai raccontato, ad esempio, del mio parto. Quello che fa parte della mia maternità fa anzitutto parte della vita di mio figlio. Il mio parto è un momento importante della mia maternità, ma anche il momento in cui inizia la vita di mio figlio. Dunque non mi sento di avere pieno diritto di disporre del suo racconto come voglio. È difficile, e mi scontro spesso con odio online che a volte mi turba profondamente, ma la voglia di mollare non mi è venuta mai!

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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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