Gaia Dominici è l'esempio vivente che l'amore non ha confini geografici. Per lei la famiglia è (ed è stata) tante cose: l'abbandono e il rifiuto prima, l'adozione e l'accoglienza, poi. Famiglia per Gaia è stato un estremo bisogno di partire e la capacità dei suoi genitori, dopo averla tanto attesa, di lasciarla andare per il mondo. Oggi che è mamma, però, famiglia è diventato abituarsi a restare, nel posto che sua figlia ha imparato a chiamare casa: il Kenya.
Nata nel 1992, la giovanissima Gaia ha già vissuto due vite, in estrema contrapposizione tra loro. Tutto è iniziato nella Bogotà degli anni '90 dove la sua mamma biologica, una ragazza-madre senza fissa dimora, le ha dato il nome di Erika. Due mesi e mezzo dopo, però, era in viaggio per Genova. Ad accoglierla i suoi genitori adottivi con i quali è cresciuta, mamma genovese doc e papà siciliano. Dentro di lei ancora oggi vivono due persone, quella bimba nata in un contesto socialmente ed economicamente difficile, data in adozione, che non è stata né voluta, né tenuta e Gaia, figlia attesa, amata e desiderata che invece nella vita ha avuto tutto ciò che desiderava.
La contrapposizione, il desiderio di ritrovare se stessa, di riconoscersi simile a qualcosa o a qualcuno, l'hanno portata a viaggiare da quando aveva 18 anni. Fino al suo arrivo in Kenya dove ha conosciuto la cultura Maasai e gli occhi di Ntoyiai, dei quali si è innamorata. Da questo amore 3 anni fa è nata la riccissima Nare, che ha vissuto la sua infanzia tra giraffe e zebre a pochi metri dalla sua dimora, che gioca con la terra e ama i tramonti della savana.
Nare è stata l'àncora di un mare in tempesta, la sua nascita ha portato Gaia, amante delle partenze, ad imparare a fermarsi in un luogo da chiamare casa. «La maternità mi ha cambiata, prima ero singola, ora sono Gaia e mamma di Nare. Il Kenya le appartiene molto più di quanto non appartenga a me, sento a volte il desiderio di partire ma lo lascio lì, lo faccio per lei, e quindi per me».
Gaia, che figlia sei stata?
Sono stata una figlia difficile, lo sono ancora. E questo è dovuto all'adozione. L'adozione, infatti, se per intensità e tipologia d'amore non ha nulla di diverso da un percorso genitoriale biologico, è differente, però, sotto altri punti di vista. Io amo Nare come mia mamma ama me, ma le due esperienze di maternità sono molto diverse.
Mia figlia ha 3 anni e mezzo inizia le prime scoperte del corpo della mamma, capisce che è stata nella mia pancia. Io ho avuto un cesareo di emergenza a 33 settimane di gravidanza, lei a volte guarda la cicatrice e mi chiede se lei è uscita da lì. Io tutto questo non l’ho avuto, anzi è sempre stato fonte di grande dolore, perché guardavo mia mamma e pensavo: “Da dove vengo se non vengo da te”, e in un bambino tra i 3 e i 4 anni può provocare molta confusione.
Quindi sono stata una figlia difficile perché l’adozione purtroppo (e dico purtroppo, perché avrei desiderato essere una figlia, una bambina e una ragazza più serena), ha intaccato molti aspetti della mia vita, anche in maniera viscida. Soprattutto in pre-adolescenza, quando non ero ancora consapevole delle emozioni, sentivo un malessere che non capivo e non conoscevo. I primi a scontarlo sono sempre i genitori, la tua famiglia, con cui inevitabilmente entri in conflitto. Non sapevo cosa avessi e non mi sentivo capita. Ad aiutarmi a comprendere molte cose è stato il percorso di psicoterapia che ho iniziato a 13 anni e ho continuato fino ai 24.
Quindi partendo, sei scappata anche dai tuoi genitori?
Non sono scappata dai miei genitori quando sono partita, avevo bisogno di cercare me stessa, di capire chi fossi, perché dove ero non lo capivo e dunque dovevo andare via. Lì i miei genitori, che amo alla follia e penso abbiano un’intelligenza e una cultura incredibili, mi hanno capita e mi hanno lasciata partire, supportandomi sempre.
Pur non condividendo ogni mia decisione, non si sono mai messi contro di me, stando sempre al mio fianco, pronti a tirarmi su ogni volta che i miei piani hanno fallito.
Ti è stato detto fin da subito che eri stata adottata?
Io non ricordo un momento preciso in cui mio papà e mia mamma mi hanno detto “Gaia, sei stata adottata”, sono cresciuta sapendolo. Sapevo di non essere loro figlia biologica, la mia storia personale nei dettagli, mi è stata raccontata quando avevo la maturità necessaria per capirla.
Ma i miei genitori hanno sempre evitato con me e mio fratello il trauma, lo shock del momento della verità.
Ti sei mai sentita discriminata dagli altri?
Ho vissuto episodi di razzismo e discriminazione, anche perché sono nata nel 1992, parliamo di un’Italia meno multietnica o aperta al diverso. C’era poca conoscenza e questo si traduce sempre in molta ignoranza. Uno degli episodi più traumatici l'ho vissuto quando avevo appena 7-8 anni circa, un mio compagno con cui tra l’altro ero molto amica un giorno mi appellò con la n-word, dicendomi di tornarmene a casa.
Eravamo solo alle elementari quindi successe un caos, le maestre vennero coinvolte, così come i genitori di tutti e due e non è stato piacevole, perché si può risolvere tutto tra gli insegnanti ma la ferita che mi è stata creata non si rimargina. É stato un trauma perché ero piccola, e più sei piccolo, meno hai strumenti per gestire queste violenze che ti vengono inflitte.
Come è nata la decisione di partire per il Kenya e abbracciare una nuova cultura?
Razionalmente non l’ho mai deciso, una cosa del genere ti capita. A me è capitato perché ero alla ricerca di un posto in cui sentirmi a casa e accolta.
Mi sono sentita finalmente a casa nella terra Maasai, che è stata un porto sicuro, un luogo in cui ho trovato tante cose che cercavo, una forte spiritualità e legame con la terra e la natura. Quindi la scelta è stata molto semplice, ma se avessi dovuto scegliere senza gli aspetti emotivi sarebbe stato tutto troppo duro.
Come è stato vivere la maternità secondo la cultura Maasai?
Io sono arrivata in Kenya che avevo vent'anni, ero molto giovane, quindi ho avuto modo di capire gli aspetti della maternità che caratterizzavano la tribù Maasai e la cultura kenyana. Uno degli aspetti più diversi dalla cultura occidentale è sicuramente il fatto che il bimbo sia figlio di tutti.
Questa è una concezione tipicamente africana, non solo del Kenya e dei Maasai. Questa concezione della maternità ho sempre sentito mi appartenesse molto di più di quella occidentale. Dunque ero preparata, apprezzavo di questa cultura che le donne si occupassero della neo-mamma e della casa, dopo il parto. Così la mamma ha il giusto tempo per riposarsi e occuparsi del figlio in toto.
Ad oggi per me è normale che Nare abbia altri punti di riferimento, anzi è sano, perché ho sempre avuto un cuscinetto cui appoggiarmi, che probabilmente avrei avuto anche in Italia con i nonni, ma qui è una cosa sociale, è nella cultura occuparsi di un bambino che non è il proprio.
Cosa ti piace meno della concezione italiana della genitorialità?
Quando vengo in Italia con Nare, ho sempre l’impressione che ci si aspetti che i bimbi si comportino come piccoli adulti. Al ristorante i bambini scocciano i commensali, non devono piangere, non devono urlare, non devono correre e se invece lo fanno la colpa è dei genitori.
Qui in Kenya mi ricordo che quando Nare aveva un anno e mezzo eravamo in un ristorante, stava mangiando delle patatine e alcune le sono cadute sotto al tavolo. Quando il ragazzo è venuto a pulire mi sono sentita in colpa e ho detto “Scusami, sta imparando a mangiare” e lui mi ha chiesto “Ti stai scusando perché tua figlia si sta comportando come una bambina?”. Questo mi ha aiutata cambiare prospettiva. È comunque buona norma scusarsi, ma lui era sorpreso.
In Italia ci si aspetta che il bimbo stia zitto e buono, altrimenti è cattivo e noi siamo cattivi genitori. Nare essendo nata e cresciuta nella savana ha comportamenti diversi rispetto ai bambini italiani, i primi anni di un bambino sono essenziali per la sua personalità, e io a volte sono in difficoltà a Genova, perché lei è stravagante e molto attiva, e mi sento giudicata e guardata. Nare ha 3 anni, cosa dobbiamo aspettarci dai bambini se non che siano bambini?
Che mamma sei per Nare?
Non so dirti che mamma sono ma posso dirti che mamma spero di essere. Spero di essere una mamma che nonostante le difficoltà sia sempre riuscita a darle il meglio. Spero di ispirarla, quando sarà grande. Spero che le mie scelte di vita, il mio voler essere libera contro ogni pregiudizio, preconcetto o struttura sociale, la ispirino a scoprirsi come donna e cittadina del mondo.
Sono una mamma poco ansiosa nel presente, la lascio libera di essere, esprimersi, le metto molti pochi limiti. Poi però mi arrabbio facilmente e perdo le staffe. Spero di essere per lei quello che sono stati per me i miei genitori, una boa alla quale lei potrà sempre tornare da grande.
Non nascondi mai le tue debolezze, racconti i momenti no, la fragilità, l’avere bisogno di aiuto. Credi che questo sia importante per abbattere il mito dei genitori perfetti?
Io spesso, pur essendo una creatrice di contenuti, usufruisco di contenuti creati da altri, e mi sono trovata soprattutto nell’ultimo periodo ad essere vittima di alcune narrazioni che mi fanno sentire inadeguata e mi fanno vedere la mia vita come non adeguata. Quindi smetto di guardare ciò che mi fa male e mi ferisce, che mi fa sentire in un modo che non mi piace.
Io condivido anche il dolore perché non riesco ad essere diversa da come sono, non riesco a mentire nel bene e nel male. Non rimpiango di aver fatto vedere la sofferenza: è importante perché il dolore ti isola e ti fa credere di essere l’unica a cui la vita riserva sfortune e sfide.
Hai raccontato di un episodio di razzismo avvenuto in Italia. Pensi che il nostro sia un Paese razzista?
C’eravamo mia mamma, Nare ed io in piscina e delle signore ci hanno detto che pensavano che Nare fosse la nipote adottiva di mia mamma e io fossi la tata di Nare. Quando veniamo in Italia per me e Nare è uno shock culturale, perché qui in Kenya viviamo in un ambiente estremamente multietnico, il governo kenyano riconosce le festività musulmane e quelle cristiane, per esempio. Il Kenya è molto inclusivo, non viviamo questo contesto di curiosità morbosa, in cui sembra necessario capire da dove si viene. In Italia noto invece una curiosità morbosa, più che uno scambio di storie di vita per conoscersi.
Bisognerebbe chiedersi perché in Italia nel 2023 una famiglia multietnica è ancora fuori dalla normalità. Secondo me la domanda è la conseguenza di una condizione sociale e culturale indietro. Un mixed baby in Italia non si capisce da dove venga, perché in generale è fuori dalla concezione comune che una donna bianca possa avere un partner nero e viceversa, lo si accetta a fatica.
Anche ragazzi di seconde e terze generazioni vivono il razzismo sulla loro pelle, lavorano, pagano le tasse, sono italiani. Per noi adottati è un po' diverso perché siamo una via di mezzo, per gli italiani siamo italiani, ma non vi nascondo che mi è capitato che mi dicessero sorpresi "Caspita, come parli bene l'Italiano". Eh già, io sono italiana.