I genitori hanno una visione distorta del dolore dei figli piccoli. Tendono a sottovalutarlo, a minimizzarlo, a concentrarsi sulla loro, di sofferenza, o, addirittura, a convincersi che a 2 o 3 anni sia difficile sperimentare il “vero” dolore. Si cade, quindi, irrimediabilmente nel paradosso del “bias della bua”, nella falsa credenza di un presunto perenne benessere dei più piccoli, o di un malessere contenuto o diverso rispetto a quello di genitori, nonni e zii. A evidenziarlo è un’indagine demoscopica condotta da Astraricerche per Zambon Italia, secondo cui in Italia 8 adulti su 10 ignorano che i bambini possano soffrire tanto quanto i genitori e oltre 1 su 4 ritiene che la sofferenza sia un’esclusiva degli over 18. Tra le principali cause di dolore dei pargoli, oltre a insonnia, ginocchia sbucciate e infortuni durante l’allenamento sportivo, viene inserito il tempo eccessivo trascorso davanti agli schermi digitali. Sulla concezione storpiata dell’angoscia che affligge chi non arriva a superare un metro di altezza, è intervenuto il Prof. Gianvincenzo Zuccotti, Prorettore ai rapporti con le istituzioni sanitarie dell’Università Statale di Milano e Direttore del Dipartimento di Pediatria dell’Ospedale dei bambini Buzzi, che ha spiegato a Wamily che cosa s’intende per dolore dei bambini e come distinguerlo da un capriccio.
Quando si parla di “dolore dei bambini”, che cosa si intende? Che tipo di dolore provano i più piccoli?
I tipi di dolore sono uguali nell’adulto e nel bambino, quello che cambia è la capacità di esprimere la sensazione provata, che nei bambini piccoli non viene riferita verbalmente e con precisione.
Il dolore è una sensazione spiacevole, di malessere soggettivo. I bambini possono provare dolore acuto e cronico, diffuso o localizzato, nocicettivo (cioè da stimolo lesivo a livello dei recettori del dolore), neuropatico (cioè da danno o malfunzionamento delle vie nervose centrali o periferiche) o infiammatorio. Esiste poi il dolore legato a procedure particolari indotte (ad esempio per un intervento chirurgico) e il dolore psicogeno legato a esperienze emozionali negative.
I bambini a volte hanno difficoltà ad esprimere quello che provano. Quali sono i segnali di dolore da non sottovalutare?
Il pianto in genere poco consolabile, le modifiche del comportamento abituale (come risvegli, svogliatezza, inappetenza), il rifiuto di fare alcuni movimenti, la comparsa di atteggiamenti posturali alterati (ad esempio gambe flesse), la localizzazione di un punto somatico preciso, le espressioni del volto anomale, come la smorfia.
Esistono, comunque, delle scale valutative del dolore per definirne l’intensità – mi riferisco a FLACC, Wong-Baker – ma devono essere utilizzate dal personale sanitario.
Come viene descritto il dolore dai bambino?
Il bambino grande, con più di 3 anni, è in grado di riferire la sensazione soggettiva di dolore che può essere più o meno associata a pianto o lamentare i segnali di dolore sopraelencati. I bambini più piccoli, in genere, piangono o mostrano i segnali indiretti di dolore.
Perché gli adulti tendono a minimizzare o ignorare il dolore dei figli? A cosa è dovuta questa percezione diffusa di “bambini-Superman”, resistenti al dolore?
Da una parte può essere legata all’errata conoscenza che i bambini piccoli non siano ancora in grado di provare dolore, mentre è ormai noto che le vie nervose deputate al dolore siano già sviluppate a partire dell’età fetale. Dall’altra, invece, è possibile che genitori minimizzino per paura di scoprire qualche malattia più grave nel bambino.
Stanchezza, insonnia ed eccessiva esposizione agli schermi sono ritenute tra le cause più diffuse di dolore nei bambini. In che modo le cattive abitudini (e quindi non solo lesioni, infortuni, cadute) provocano dolore e sofferenza nei bambini?
Le cattive abitudini possono provocare sia un dolore psicogeno che un dolore somatico. Da un punto di vista fisico, eccessivo tempo davanti allo schermo può provocare ad esempio cefalea, bruciore oculare, mal di schiena e posture alterate ma anche l’assunzione di cibi particolari può essere associata a cefalea. Da un punto di vista psicologico, invece, l’iperesposizione agli schermi può portare a isolamento, alterata percezione della realtà con conseguente aumento del rischio di stress e sofferenza psicogena.
Come si distingue un malessere fisico da un capriccio? Mi riferisco al tipico mal di pancia prima di andare a scuola per rimanere a casa…
Di solito il capriccio non è associato ad altri segni di allarme, come febbre o vomito, o a segnali indiretti di dolore ma passa se il bambino viene distratto con altre attività. Inoltre, il malessere o capriccio si ripete sempre nelle stesse condizioni (per esempio, tutti i giorni in cui c’è ginnastica), nelle ore precedenti e successive alla segnalazione il bimbo è in benessere.
A volte pediatri, educatori, insegnanti si lamentano di genitori iperpreoccupati, quasi ossessionati dal benessere dei figli. Come si concilia questo con il “bias della bua” e questa immagine di genitori quasi egoisti?
Social, TV e internet amplificano le notizie sugli stati patologici/di malattia dei bambini creando ansia e preoccupazione. La ricerca su internet senza conoscenze può portare a indicazioni allarmanti e a un’eccessiva preoccupazione/ossessione. Questo fa sì che i genitori possano pensare che il proprio figlio stia male anche in assenza di sintomi/segni di malattia e quindi ricercare il benessere in maniera ossessiva.
Inoltre, per i genitori lavoratori (soprattutto se lo sono entrambi), l’impossibilità di stare con il bambino crea la preoccupazione di non aver sotto controllo il benessere del bambino, di sottovalutare qualche problema e la ricerca di conferme di benessere.
L’arrivo di Internet ha favorito le diagnosi “fai da te”. Banalmente, quando il figlio lamenta un malessere, il genitore cerca causa e rimedi in rete, a volte allarmandosi per nulla o al contrario sottovalutando un sintomo. Come influisce tutto questo sulla professione pediatrica?
Il “fai da te” può influire sui ritardi di diagnosi o al contrario può portare ad una richiesta eccessiva di valutazioni senza reale motivo.
Se il dolore del bambino è dettato da un malessere psicologico, come bisogna intervenire? E come lo si può riconoscere?
Il malessere psicologico può essere riconosciuto da un cambiamento del carattere e/o delle abitudini del bambino, che persistono. Nel momento in cui c’è il sospetto di malessere psicologico, bisogna agire tempestivamente, facendo riferimento a figure specializzate (medico curante, psicologi).
Come ci si deve approcciare al dolore dei bambini? Preoccuparsi eccessivamente è sbagliato e rischia di fomentare le sue paure, allo stesso tempo però bisogna spiegargli che il dolore esiste e che l’Ospedale non è un luogo di cui avere paura…
Il genitore deve essere informato fin dalla nascita del bambino della possibilità che il piccolo possa provare dolore in modo da non sottovalutarlo. Il genitore e il medico devono riuscire a instaurare un rapporto di fiducia e comunicare in maniera adeguata in base ai bisogni. Il genitore deve essere in grado di gestire il dolore di lieve entità. Va introdotto, durante la presa in carico del bambino, il concetto che l’Ospedale è il luogo dove ci sono persone e strumenti adatti a risolvere e affrontare l’eventuale problema. Qualsiasi forma di dolore del bambino va considerata con attenzione, utilizzando tutti i sistemi di rilevamento/valutazione a disposizione, e trattato adeguatamente in base all’entità e alla causa sottostante.