Partorire è doloroso: questo è innegabile. Nessuno vi potrà mai dire il contrario. Ciò che però possiamo aggiungere è che, forse, si tratta di uno dei casi della vita in cui abbiamo a che fare con un dolore che ha una sua completa giustificazione medica, essendo sintomo di contrazioni efficaci.
Qualcuno per definirlo usa addirittura l’ossimoro di “dolore buono” in quanto finalizzato alla realizzazione di uno degli aspetti più significativi della vita di una madre.
Le nostre nonne, in alcune regioni d’Italia, parlano invece di mal desmentegon: un male che si dimentica, insomma, principalmente grazie alla capacità del nostro cervello di dare maggior peso nella memoria alle informazioni riguardanti i ricordi belli sfumando via via quelli un po’ più traumatici.
Per una madre sarà quindi indimenticabile il ricordo del primo abbraccio con il proprio bambino, nell’immersione del pelle a pelle e dell’ossitocina che si libera e rende il momento unico, mentre potrebbe cadere sempre più nell’oblio la memoria viva del dolore provato: è uno dei meccanismi che ha elaborato la natura per non bloccare la continuità della nostra specie.
La funzione del dolore in generale e del dolore fisiologico durante il travaglio-parto
Ma quando parliamo di dolore molte altre cose vanno chiarite: prima tra tutte è il fatto che questo aspetto tanto temuto e tanto odiato ha in realtà una importante funzione protettiva.
Se volessimo semplificare tutto ai minimi termini potremmo dire che ogni volta che urtiamo un oggetto o ci feriamo in qualche modo, le cellule danneggiate inviano un segnale tramite determinati recettori (i nocicettori) ai centri del dolore: il tutto con l’unico scopo di salvaguardarci e di farci, magari, togliere di fretta la mano da un punto caldo o cambiare immediatamente posizione al fine di evitare di peggiorare il possibile trauma.
Anche durante il travaglio e il parto non è poi così diverso e il dolore rimane una importante fonte di protezione: protegge, infatti, dai danni dei tessuti (perineo e collo dell’utero) e delle ossa del bacino ed è una guida preziosa nel segnalare alla donna le posizioni più antalgiche (quelle cioè di minor compressione e resistenza) utili a correggere le malposizioni del bambino che sta scendendo lungo il canale del parto.
Nei travagli fisiologici il dolore è dunque una componente che fa parte della normalità dell’evento nascita e che aiuta a definirla come una esperienza intensamente psico-affettiva; se la donna è sana e, soprattutto, se ha attorno a sé l’ambiente giusto che la fa sentire capita e sostenuta, se il feto si atteggia nella posizione corretta ed è di una dimensione adeguata al canale da parto allora anche il dolore si presenta in una forma nella quale lei stessa, non solo è in grado di viverlo attingendo direttamente dalle proprie risorse interne, ma lo può cogliere come una vera e propria garanzia della normalità dell’evento stesso.
Il dolore, infatti, se non eliminato, attiva un’armonica cascata neuro-ormonale che determina una buona attività contrattile e una progressiva discesa del feto nel canale da parto.
Le testimonianze delle donne
Tutta la scienza e i suoi dati non saranno mai tanto empatici come la voce di chi quel momento l’ha vissuto in prima persona.
Per comprendere il dolore del parto non c’è quindi esperienza migliore da fare che ascoltare qualche testimonianza. Ecco cosa scrivono, ad esempio, alcune donne che hanno scelto di vivere la propria esperienza di nascita nel modo più fisiologico possibile, senza rinunciare anche alla componente dolorosa (citazione diretta da una ricerca di Regalia-Bestetti del 2005):
«È un dolore che nasce dentro di te ma che tu non puoi controllare; a volte lo assecondi, a volte ti ribelli; a volte credi di poterlo sostenere, altre volte ne sei sopraffatta. La conclusione è un miracolo»
E ancora: «non si può descrivere, si può solo provare»; «è troppo grande e talmente personale che non si può descrivere, bisogna viverlo»; «è un dolore che nasce dal profondo, a tratti insopportabile, che ti porta ad uno stato di completa grazia, di gioia profonda».
Quando il dolore va contrastato
Se da un lato, soprattutto per quello che emerge da queste ultime parole, il dolore è quindi parte integrante dell’esperienza della nascita ciò che invece dobbiamo senza dubbio fare è renderci conto di quando non si rientra più nella fisiologia.
L’obiettivo principale di una corretta conduzione del travaglio rimane sempre quella di ridurre l’aspetto del dolore non necessario.
Tuttavia, mentre nei travagli fisiologici il maggior lavoro da fare è quello sulla consapevolezza del sentire personale (il dolore diventa quindi, talvolta, una guida nella scelta della posizione più utile al progredire del parto ma ciò è possibile solo grazie all’attento ascolto del proprio corpo e dei vari segnali che esso ci manda) diverso è il caso in cui si parli di travagli patologici.
In questo caso la componente del dolore può invece ostacolare l’eutocia della nascita attivando in modo anomalo adrenalina e prostaglandine: può quindi essere decisamente molto più utile alleviarlo o eliminarlo. Ma di quali casi stiamo parlando?
Nella medesima ricerca di letteratura già citata in precedenza e dedicata proprio all’argomento del dolore redatta nel 2005 da Regalia e Bestetti emergono le seguenti condizioni come aspetti indicativi su cui intervenire per migliorare la sintomatologia dolorosa. Si tratta di:
- Condizioni materne quali: ipertensione e/o preeclampsia; patologia respiratoria (asma), patologia cardiaca (valvulopatie, ipertensione polmonare primitiva); patologia endocrina (diabete pre-gestazionale in scarso compenso); patologia psichiatrica (psicosi che risponde a farmaci).
- Condizioni del pre-travaglio o del travaglio: prodromi di travaglio prolungati che durano più di 24h; ipercinesia (eccesso di contrazioni) non correggibile con procedure rilassanti come l’uso dell’acqua; accelerazione del travaglio con necessità di prolungare l’uso dell’ossitocina per marcato rallentamento; presenza di condizioni particolarmente sfavorevoli della cervice uterina (collo dell’utero che magari si presenta rigido e difficilmente dilatabile: è quello che in ostetricia si chiama “distocia cervicale”); travaglio nel quale la donna si presenta totalmente intollerante e chiusa ad ogni tipo di relazione di sostegno proposta.
L'approccio fa la differenza
È chiaro che non è possibile arrivare ad affermare che il dolore fisiologico sia scientificamente diverso da quello non fisiologico.
I meccanismi biologici alla base del dolore rimangono sempre gli stessi: ma ciò che fa la differenza in modo sostanziale è il tipo di approccio che si ha nell’affrontarlo.
Preparazione, consapevolezza, capacità di ascolto del proprio corpo e soprattutto le persone giuste ad accompagnare come fonte di sostegno sono la vera chiave di volta per sconfiggere il dolore. E qui la scienza deve per forza lasciare il passo al lato umano: nulla, infatti, è più funzionale di convinzione e volontà per raggiungere un proprio obiettivo.
I corsi pre-parto, ad esempio, sono un’ottima occasione per prepararsi ad affrontare il dolore: la possibilità di ascoltare, comprendere, capire, chiedere e soprattutto esprimere le proprie paure e perplessità, magari in condivisione con altre future mamme, può essere davvero una sterzata personale e un aiuto potente per il futuro momento del travaglio e del parto.
Il dolore iatrogeno
Un’ultima considerazione va fatta, infine, su un terzo tipo di dolore, quello generato dalle procedure mediche e che viene comunemente definito “dolore iatrogeno”.
Dalle esperienze cliniche di molti pazienti e operatori emerge con chiarezza come determinate procedure ostetriche siano causa di una percezione aumentata di dolore da parte delle donne. Ciò è conseguenza diretta di una alterazione della cascata neuro-ormonale adrenalina – ossitocina – prostaglandine: l’effetto è un aumento del ricorso improprio al taglio cesareo.
Ma di cose stiamo parlando concretamente? Di aspetti come:
- l’induzione meccanica o farmacologica al travaglio di parto (o l’accelerazione con ossitocina);
- visite vaginali eccessive o anche molto più semplicemente della limitazione della libertà di movimento (a causa ad esempio della difficoltosa registrazione cardiotocografica che serve a monitorare il benessere del bambino in pancia)
- l’episiotomia, il taglio a livello perineale che un tempo veniva effettuato routinariamente con l’obiettivo di scongiurare lacerazioni perineali più gravi (ma che poi si è visto non essere per nulla protettivo in tal senso)
- la manovra di Kristeller, altra pratica attualmente sconsigliata che prevede in determinati casi una pressione sul fondo dell’utero (e quindi sulla pancia) per accelerare l’uscita del bambino.
Tutto ciò non vuol dire che le procedure cliniche siano per forza da demonizzare e che ogni aspetto cada nell’ormai abusato termine di “violenza ostetrica”. La cosa importante è che tutto venga fatto solo quando è strettamente necessario, con le dovute informazioni alle donne e, ove possibile, anche con un adeguato tempo di riflessione che permetta la rielaborazione e l’accettazione della pratica.