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1 Marzo 2023
17:00

La famiglia cambia, la società avanza, la politica chiude gli occhi e retrocede

Adozione negata ai single, congedo di paternità con il contagocce, scuola del merito ma impennata di suicidi tra studenti insoddisfatti. La società si sta evolvendo, mentre la politica è rimasta indietro, a guardarla correre con le braccia incrociate.

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La famiglia cambia, la società avanza, la politica chiude gli occhi e retrocede
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Forse un tempo in cui la cultura politica reggeva il ritmo dell’innovazione non è mai esistito. O forse, i nostri antenati ne hanno avuto un assaggio quando l’Europa era rischiarata dall’Illuminismo e la politica si dichiarava al servizio dell’uomo e dei suoi diritti naturali, in nome di uguaglianza, tolleranza e libertà. Oggi, a 24 secoli di distanza da quando Aristotele ci chiamava – plurale maiestatis – «animali politici», i due mondi non si sono ancora allineati. Società e politica continuano a viaggiare a velocità diverse su due binari paralleli. Chissà che a forza di correre sulle rotaie, un giorno la locomotiva di Palazzo Chigi non riesca a raggiungere quella che trasporta, a bordo, la sua gente.

Genitori adottivi single: solo se il minore è disabile

Non esistono report ufficiali aggiornati sul numero di minori adottabili nel mondo, o in Italia. Sappiamo che nel 2021 nel nostro Paese hanno presentato la richiesta di adozione (nazionale e internazionale) 10.707 coppie e che, nello stesso anno sono stati ufficialmente adottati 2.085 minori under 18.

Un bilancio che, a primo acchito, suona negativo, ma che migliora se confrontato con quelli di altri Paesi europei. Quel che ci lascia perplessi è il criterio con cui è negata l’adozione a specifiche categorie familiari, per le quali l’ipotesi di diventare genitori adottivi è esclusa a priori, prima che arrivino a bussare alla porta del Tribunale per i Minori: single e coppie omosessuali.

Uno spiraglio di luce che accentua le disuguaglianze

Il primo requisito per adottare un bambino in Italia è avere un coniuge con cui essere sposati, un vincolo che taglia immediatamente fuori chi non ha un compagno e chi è gay, anche se unito civilmente.

Per i primi – chi non ha un partner – l’unica via di fuga è l’art. 44 lett. d) della Legge 184/1983, che concede a chiunque la possibilità di adottare un figlio, purché, per esempio, quest’ultimo soffra di una minoranza fisica, psichica o sensoriale. In più, l'adozione in casi particolari è revocabile e non recide i rapporti con la famiglia d’origine. Uno spiraglio di luce che accentua le disuguaglianze.

Alle coppie gay pure la via traversa – quella dell'adozione in caso di disabilità del minore – è sbarrata: che i piccoli siano sani, o affetti da qualche patologia, a due compagni dello stesso sesso l’adozione in Italia è vietata.

Allora perché si parla di adozioni agli omosessuali «in casi particolari»? Una coppia gay non ha il potere di adottare. Al massimo, uno dei due ha la possibilità di adottare il figlio dell’altro: è il caso comunemente noto come "stepchild adoption". Ma la coppia – in quanto unità familiare – non è libera di crescere un pargolo dandogli una famiglia.

L'adozione all'italiana è arrugginita

In fin dei conti, l’adozione all’italiana è arrugginita: quando la legge che la regolamenta è nata (1983), in Italia si festeggiava ancora la vittoria del referendum sull’aborto, fresca di due anni. E mentre in Olanda le adozioni gay sono state sdoganate 22 anni fa, nell’anno in cui le Torri Gemelle crollavano, oggi nello Stivale la Presidente del Consiglio – all’epoca in campagna elettorale – risponde che no, non «è un’idiozia che per un bimbo disabile sia sufficiente un solo genitore e per gli altri ce ne vogliano due sposati», perché «per un bambino essere cresciuto e amato da un papà e una mamma è meglio che esserlo da uno solo dei due».

Coppia gay adozione

Congedo di paternità: un caso di gender gap al contrario

I congedi che scattano alla nascita di un bebè sono un chiaro esempio di gender gap al contrario. Secondo i dati Ocse (2021), in Italia i congedi retribuiti hanno una durata di 21,7 settimane per le donne e 1,4 per gli uomini, contro una media europea di 22 settimane per le donne e 2,2 per gli uomini. Non è tutto: tra il 2017 e il 2020, solo una frangia risicata di papà ha usufruito dei congedi parentali, pari al 20,5%, mentre il restante 79,5% è rimasto appannaggio delle quote rosa.

Numeri distanti anni luce da quelli della Spagna, che vanta, nel suo ordinamento, una semi-uguaglianza fra mamme e papà: se i congedi femminili sono più brevi rispetto che in Italia (circa 4 mesi), quelli maschili contano addirittura 12 settimane.

Una rincorsa verso l'Eden iberico dei congedi genitoriali: la Spagna

Qualcosa è cambiato pure nel nostro Paese. Il 2022 è stato l’anno in cui la Legge di Bilancio ha ufficializzato il congedo obbligatorio di paternità di 10 giorni, oltre che i tre mesi retribuiti al 30% di congedo parentale per ciascun genitore (papà incluso). Una rincorsa verso l’Eden iberico dei congedi genitoriali, con uno stacco di 11 settimane.

Congedo paternità

Nel nostro Paese la figura del "padre a tempo pieno", che si prende cura del neonato in fasce quanto o più della mamma, non è concepita, almeno per legge. Sulle nostre spalle pesa ancora la tradizione secondo cui il papà è il padrone di casa, che lavora e relega le faccende domestiche e la crescita dei figli alla sposa (non è un caso che il termine “capofamiglia” sia una traduzione del latino pater familias).

Un concetto che ha attecchito nella cultura nostrana e nell’immaginario comune, tanto che, a più di due millenni di distanza, siamo ancora costretti a farci i conti. Oggi, quel pater familias non è solo nelle pagine dei libri di Storia. Fino a quando non ce ne libereremo, la parità di genere (sia al femminile, che al maschile) continuerà a essere un traguardo da raggiungere, e non un dato di fatto.

La scuola che difende il benessere della pagella, non quello mentale

Un under-19 su sette soffre di disturbi di salute mentale e il suicidio è la quinta causa di morte fra i 15 e i 19 anni, la seconda in Europa. All’indomani della pandemia, i titoli dei giornali e dei notiziari hanno scoperchiato il vaso di Pandora, aprendo uno squarcio su un fenomeno che fino ad allora era rimasto nell’ombra: la salute mentale infantile e adolescenziale.

È come se prima del Covid-19, che ha costretto i più piccoli (come i grandi) fra le mura domestiche davanti agli schermi dei pc e lontano dai banchi di scuola, i disturbi psicologici non esistessero. Non è così: se mai, con i lockdown e le restrizioni alla socialità, i mali della testa si sono accentuati.

La scuola del merito non deve funzionare come un selezionatore sociale

È naturale chiedersi quanto le pressioni della famiglia e della scuola – due punti cardinali della vita di bambini e ragazzi – incidano sul loro benessere psicologico. Una considerazione che, evidentemente, non interessa a una politica che punta sul merito e sul rigore, immaginando la scuola come un selezionatore sociale, che premia chi esegue brillantemente i compiti assegnati, e scarta chi, per qualsiasi motivo, resta indietro.

Disagio scolastico

Forse, la soluzione non è chiudere gli occhi di fronte ai disagi della società. Puntare sui risultati in pagella e sulla media scolastica non aiuta ad alleggerire i giovani del fardello delle pressioni sociali, che sfociano nei disturbi psicologici.

Quello che occorre è una scuola che funzioni da àncora di salvezza per studenti disorientati, da lume di speranza per il futuro delle nuove generazioni, da rottamatore dell’ignoranza. E ancora, una scuola che insegni ai suoi alunni l’arte dello sbagliare, a cadere e rialzarsi, a imparare, non a primeggiare. Una scuola in grado di ascoltare, di trattare la diversità come un valore aggiunto, anziché un reietto, di tendere la mano laddove qualcuno inciampi.

Il che non equivale a non lodare il merito, o a lasciare spazio ai lavativi per approfittarsene. Anzi, la scuola deve fungere da palcoscenico per i suoi talenti – quegli studenti che con lo studio, la dedizione, la predisposizione innata e l’aiuto degli insegnanti scoprono e mettono a frutto la loro vocazione – ma anche da laboratorio per lavorare quelli che sono diamanti ancora grezzi.

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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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