Parlare di disabilità a noi adulti a volte risulta complesso, perché purtroppo la nostra società è ancora permeata di un approccio un po’ pietista soprattutto alla disabilità più evidente, quella fisica. “É un bimbo speciale”, "È stato meno fortunato”, però sono concetti che dovrebbero essere del tutto superati con una rivoluzione culturale che può partire solo dalla corretta informazione, per la quale l’associazione Anffas si batte da tempo. A raccontarci la storia dell’associazione e come la disabilità sia trattata nelle scuole e nella società è stata Roberta Zona, che fa parte di Anffas Gorizia e della giunta esecutiva nazionale dell'associazione.
Dalle sue parole sono emerse le battaglie che migliaia di famiglie combattono insieme per evitare l’isolamento sociale e insegnare al mondo che la disabilità non è un concetto lontano, ma è qualcosa con cui ci scontriamo tutti ogni giorno quando siamo in difficoltà a causa dell’ambiente in cui ci troviamo, che non risponde alle nostre esigenze.
La storia dell’associazione Anffas
Anffas è un’associazione storica italiana, che si occupa di fare corretta informazione culturale riguardo la disabilità. Nasce ed è composta principalmente da famiglie di bambini o ragazzi che hanno una qualche disabilità ed è organizzata in modo da essere distribuita capillarmente sul territorio e raggiungere così chiunque. C’è un Anffas nazionale, ci sono Anffas regionali, locali e sedi nei singoli comuni.
L’associazione interloquisce direttamente con il Ministero e partecipa attivamente ai tavoli a livello nazionale. «Anffas è un’associazione nata negli anni ‘60 e questo lo si deduce dal nome, che allora parlava di fanciulli subnormali. L’acronimo è rimasto lo stesso per rendere l’associazione riconoscibile, ma ora è cambiata la denominazione, si occupa di persone e famiglie di persone con disabilità intellettiva e del neurosviluppo. Affronta la disabilità a livello trasversale, la persona è al centro su più fronti, la scuola, il lavoro, lo sport e il turismo» ci racconta Roberta Zona.
Raccontare la disabilità ai bambini
Spiegare la disabilità ai bambini sembra difficilissimo, ma non lo è, i piccoli sanno meglio di noi che la diversità non è una stranezza ma la regola.
Questo perché trascorrono le loro giornate in classi molto inclusive, circondati da compagni che hanno tradizioni diverse, famiglie diverse, che magari parlano lingue diverse e vivono questa situazione con estrema naturalezza: «La scuola veramente inclusiva fa partecipare tutti, i bimbi affrontano tutti i giorni nella loro classe la diversità in maniera del tutto naturale, forse sono gli adulti che dovrebbero imparare a non mettere né filtri, né sovrastrutture».
Bimbi che crescono in questo modo possono essere i germogli di una società che in futuro superi addirittura il concetto di inclusività per arrivare a quello ancora più significativo di convivenza.
Per farlo è necessario uscire dalla narrazione dei “bimbi speciali”, “bimbi eccellenti”, che non esistono, per lasciare spazio a una riflessione sul contesto e sull’ambiente: «La disabilità è l’interazione che può avere una qualsiasi persona rispetto all'ambiente in cui vive. Per esempio se ci rompiamo una gamba e abbiamo le stampelle, oppure dobbiamo muoverci con la carrozzina, uno scalino può essere un ostacolo, rimosso lo scalino, quel posto è molto più accessibile anche per noi» spiega Roberta Zona.
Come viene affrontata la disabilità nelle scuole?
La scuola sta muovendo grossi passi per diventare sempre più inclusiva per i ragazzi con disabilità, e sono lontani i tempi in cui esistevano le cassi speciali riservate ad alunni disabili.
Per l’anno 2020-21 sono stati varati dei piani educativi individualizzati (PEI) innovativi perché per la prima volta hanno uno schema uguale per tutta l’Italia. Questi nuovi piani, inoltre, sono stati i primi a coinvolgere le famiglie, prevedendo un colloquio tra loro e la scuola.
«Quello che noi notiamo nel mondo della scuola è che giuridicamente le norme ci sono e le cose si possono fare, il problema è che tecnicamente serve fare formazione e informazione. Se non si modifica l’approccio culturale e non si formano tutti i docenti e il personale scolastico, molte delle nostre famiglie riscontrano tante difficoltà a vivere la scuola in modo inclusivo» dice Roberta Zona.
Questo crea grossi problemi anche nel contesto classe ai bambini disabili, se ci sono dei piani apposta per loro, delle leggi ad hoc ma il personale non è preparato, il ragazzino rischia di essere completamente isolato: «C’è un grosso isolamento dei nostri figli che spesso sono quelli che creano il problema in classe, perché non si comportano come gli altri, hanno reazioni non sempre attinenti all’ambiente scolastico e questo genera molto isolamento, soprattutto se non si mettono in pratica le leggi che rimangono sulla carta», spiega Roberta Zona.
Un altro problema delle scuole riguarda il personale formato apposta per supportare ragazzi con disabilità, gli insegnanti di sostegno mancano e soprattutto spesso non sono preparati a sufficienza: «Purtroppo la scuola sconta il fatto di pensare che il posto di sostegno che spesso viene dato, pur di coprirlo, a docenti non specializzati, sia un posto per fare punteggio e poi accedere alla cattedra ordinaria» continua Roberta Zona.
Questo è un enorme problema, i ragazzi con disabilità si trovano o senza insegnante di sostegno per mesi, o con anche 4 figure che si avvicendano durante l’anno. Sono costretti ad approcciarsi dunque a metodi educativi diversi, persone diverse. Soprattutto questa discontinuità non permette che ci sia un lavoro di squadra che coinvolga le famiglie, i medici, gli psicologi e il personale scolastico.
Il tutto ricade sulle famiglie che sono obbligate dunque a muoversi da sole nel tentativo di mantenere attiva la comunicazione tra tutti gli attori che gravitano attorno ai loro figli.
Cosa manca a livello sociale per aiutare le famiglie con bimbi disabili?
Se la medicina ha fatto moltissimi passi avanti e ad oggi le famiglie riescono ad avere per i loro bambini diagnosi di disturbi del neurosviluppo in tempi brevi, spesso escono dallo studio medico e davanti hanno il vuoto.
«Paradossalmente in un mondo pieno di informazioni è difficilissimo trovare quelle che ti servono se non sei guidato. Le famiglie non sanno se hanno diritto a supporti economici, a chi possono chiedere aiuto, come accedere alle terapie» dice Roberta Zona, spiegando che le associazioni nascono proprio per colmare questo vuoto, supportando le famiglie, fornendo le informazioni necessarie, molto disomogenee nelle varie parti del mondo.
«Le famiglie sono sole. Pensiamo ai fratellini e alle sorelline dei bimbi con disabilità, vengono spesso messi in secondo piano e obbligati a crescere in fretta. Poi tutto quello che fanno lo fanno con grande amore ma si crea un forte squilibrio nella famiglia e alla fine finisci per essere un isolato sociale, gli altri non ti invitano alle feste, di andare una sera al ristorante neanche se ne parla».
Quindi le famiglie fanno rete, si danno all’associazionismo, cercano di essere in prima linea e sommano alle preoccupazioni di ogni genitore il desiderio di vedere i diritti dei loro figli riconosciuti.
Le infrastrutture permettono a bambini con disabilità di essere autonomi?
«Sì, ma solo se si lavora sempre sull’aspetto culturale», Roberta Zona ci ricorda infatti che spesso tendiamo a ragionare sulle disabilità visibili ma moltissime sono quelle invisibili che richiedono attenzione, bisogna sempre lavorare sull’ambiente, le luci al neon in classe, per esempio, potrebbero dare fastidio a un bambino autistico molto sensibile. Alla fine basta che le luci vengano cambiate. Ci sono bambini che invece non riescono proprio a stare attenti e composti tutte quelle ore, se hanno bisogno di fare una passeggiata, serve solo che ci sia qualcuno disposto ad accompagnarli.
Lo stesso vale per le attività extrascolastiche, spesso gli allenatori non sanno cosa fare, non sono preparati e quindi si spaventano davanti a una reazione inaspettata di un bambino.
«L’allenatore di pallavolo, quello di calcio, quello di nuoto, dovrebbero tutti fare dei corsi con il supporto e l’aiuto delle associazioni per aiutare tutti i ragazzi a partecipare alle attività ludiche, perché quando si hanno le informazioni giuste tutto funziona bene e l’ambiente consente a tutti di fare tutto. Alla fine se arriva un ragazzino che non parla italiano, gli mettiamo a disposizione il mediatore linguistico, basta trovare le strategie giuste per ogni tipo di disabilità, allora sì che sarebbe un mondo inclusivo». Conclude Roberta Zona.