Yasmine Machhouri ha 21 anni, è iscritta al terzo anno di Giurisprudenza alla Statale di Milano, vive nella periferia meneghina con mamma, papà e sorella, e indossa volontariamente l’ḥijāb.
Originaria di Casablanca in Marocco, Yasmine ha ormai dimenticato il giorno in cui è arrivata in Italia, più di 19 anni fa. Per raccontarci le emozioni dei suoi primi anni nel nostro Paese e riannodare all’indietro il nastro della memoria, si affida ai racconti dei genitori. Nonostante abbia frequentato le scuole italiane – tutte, dall’asilo al liceo – vanti una dialettica invidiabile e ripensi al Marocco come al Paese della villeggiatura estiva, sta ancora attendendo l’agognata cittadinanza italiana.
Si definisce un’amante appassionata dell’Italia, anche se l’integrazione, per lei, sua mamma, suo papà e la sua sorellina, non è stata una passeggiata. Crescere in una famiglia immigrata nella nazione della pizza e del tricolore ha le sue difficoltà.
Intraprendente e determinata, per Yasmine sono ormai acqua passata i commenti dei compagni di classe, che, nel bel mezzo della strage di Charlie Hebdo, la pregavano, scherzando: «Non farci saltare in aria!».
Anche la scelta di indossare il velo non è andata giù a tutti. Anzi, quel «fazzoletto», come lo chiama lei, che indossa con orgoglio e consapevolezza, è stato un ostacolo nella ricerca del lavoro durante gli studi. Oggi ammette che qualcosa sta cambiando, anche se non è convinta di vedere il suo futuro in Italia. «Non vorrei arrivare a laurearmi e raggiungere un certo livello sociale per poi sentirmi dire “Torna nel tuo Paese”».
Yasmine, raccontaci la tua storia…
Mi chiamo Yasmine Machhouri, ho 21 anni e abito in provincia di Milano, anche se sono nata in Marocco, in una città vicino a Casablanca. Sono arrivata in Italia all’età di 1-2 anni ed è stato un trauma per me, perché, nonostante la tenera età, quando nasci in un ambiente diverso, l’impatto con il Paese di arrivo è violento. I miei genitori mi hanno raccontato che, appena trasferita, non riuscivo a dormire, percepivo la diversità intorno a me.
Oggi, invece, sento l’Italia come casa mia, e quando vado in Marocco è come partire per una vacanza, o per un viaggio di ritorno alle origini. Dopotutto, sono cresciuta in Italia, ho frequentato qui tutte le scuole, dall’asilo fino all’Università, e oggi sono al terzo anno di Giurisprudenza.
Com’è vivere in Italia per chi arriva da un altro Paese?
Io e la mia famiglia stiamo molto bene qui. Le persone sono simili a quelle in Marocco, anche a livello di genetica o di comportamento… Banalmente, il fatto di essere accoglienti o di salutare ci accomunano. L’unica nota dolente è la politica.
Per quanto riguarda il modo in cui noi stranieri viviamo in Italia, non saprei da dove cominciare: io cerco di non generalizzare, ma sono le altre persone che generalizzano.
Che cosa intendi?
In Italia esiste una politica che preme sull’ignoranza delle persone per ottenere un voto. Anche per questo studio Giurisprudenza. È un dato di fatto che per una donna la scalata sociale è più difficile di un uomo, soprattutto se questa donna è diversa, e questa cosa l’ho provata sulla mia pelle.
Quando alle superiori cercavo lavoro per guadagnare dei soldi miei, trovarlo era difficile a causa del velo che indosso. Anche se ammetto che oggi qualcosa è cambiato: quando vado a fare shopping, noto delle commesse col velo, e questo è un segnale positivo.
A scuola ti sei mai sentita giudicata per le tue origini marocchine?
Al periodo delle superiori risale la strage terroristica di Charlie Hebdo. Ai tempi avevo quasi 16 anni, non indossavo ancora il velo ed ero molto insicura, come è normale che sia in adolescenza. I miei compagni hanno iniziato a farmi delle battutine, del tipo “Non farci esplodere”, e ridevano.
Oggi capisco il punto di vista della persona che si sveglia la mattina, vede il telegiornale e ascolta quelle terribili notizie di cronaca, anche se mi infastidisce ancora, perché gli atti terroristici non hanno nulla a che vedere con il Marocco o con l’Islam. Da quegli episodi ne uscì una litigata, tra la prima e la seconda superiore. Non ne potevo più. Oggi invece sono molto sicura di me, mi sono fatta una mia idea personale, ma tante ragazze della mia età faticano ancora ad integrarsi, ad aprirsi e a sentirsi bene con se stesse.
Quando hai iniziato a indossare il velo?
L’ho messo per la prima volta tre anni fa. Prima di allora, a meno che non sapessero il mio nome, non si permettevano di dire niente, mentre adesso, solo perché lo indosso, è come se vedessero "Islam", e lo collegassero a qualcosa di negativo. Quando mi mostro nelle live di TikTok, alcune persone scrivono battute razziste, ed è una cosa che m’infastidisce terribilmente.
Io porto con orgoglio il velo perché so cosa significa, so la motivazione per cui lo indosso, ne vado fiera, ma, allo stesso tempo, mi irrita che non sia vista la mia persona, cioè Yasmine, ma sia considerato solo il fazzoletto che ho in testa. Forse, a spiegarlo così, sembra una questione contraddittoria – è ovvio che se lo metti si veda ed è normale tendere a generalizzare essendo la prima cosa che uno vede – ma mi dà fastidio. Ecco, come dicevo, la generalizzazione è quello che non mi piace.
Il velo lo misi per la prima volta nel 2020, in piena pandemia. Avevo da poco terminato le superiori e, passando molto tempo a casa, ho avuto modo di riflettere. Tra le domande esistenziali che continuavo a pormi c'era sempre questa: "Perché non porto il velo?". La risposta era semplice ma faticavo ad accettarla… Avevo troppa paura del giudizio altrui, ero debole. Il giorno in cui decisi finalmente di indossare l'hijab lo feci principalmente perché sapevo che dovevo uscire dalla mia zona di comfort e smettere di essere incoerente con le mie ideologie.
È faticoso integrarsi in Italia?
Sì, è difficile integrarsi, anche al di là della lingua. Noi marocchini comunichiamo tanto con le espressioni facciali, in Italia si gesticola con le mani ma non quanto in Marocco, ed è difficile intrattenere una conversazione senza rischiare di fraintendersi, anche se si conosce l’italiano.
L'ho visto con i miei occhi con mio padre quando si rivolgeva agli assistenti sociali. Lui fraintendeva parecchie cose pur conoscendo bene la lingua, perciò ho preso in mano io la situazione, risolvendola, perché ho saputo comunicare nel modo corretto, capendo il punto di vista del mio interlocutore. In effetti, per i miei genitori è stato ben più complesso integrarsi rispetto a me e a mia sorella, non essendo cresciuti qui.
Hai la cittadinanza italiana?
Io ho 21 anni, quasi 22, sono qui da quando avevo 1 anno e non ho ancora la cittadinanza. Siamo in quattro in famiglia, e solo in due l’hanno ottenuta: mia mamma e mia sorella, che è più piccola di me e l’ha ottenuta l’anno scorso, a cinque anni di distanza dalla presentazione della richiesta. Quando un genitore ottiene la cittadinanza, infatti, in automatico la riceve anche il figlio, ma solo se quest'ultimo è minorenne. Io, purtroppo, ero già maggiorenne.
Paradossalmente, io e mio padre – che in casa capiamo la lingua meglio di tutti e che siamo "i più italiani" della famiglia – siamo senza cittadinanza. E l’iter per ottenerla si è ancora più complicato dopo il Decreto Salvini, che lo reso più travagliato.
Io mi sento più italiana che marocchina, eppure ad oggi non sono cittadina di questo Paese. Per questo, sono una convinta sostenitrice dello Ius Scholae: chi ha frequentato, come me, tutte le scuole in Italia, dovrebbe ricevere di diritto la cittadinanza!
Cosa significherebbe per te riuscire ad ottenerla?
La cittadinanza è fondamentale, non solo per il senso di appartenenza, ma anche perché ti garantisce tutta una serie di cose. Il reddito di cittadinanza, per esempio, di cui in un certo periodo avevamo bisogno e che, senza cittadinanza, non abbiamo potuto richiedere. O il passaporto italiano, che è uno strumento importantissimo per spostarsi facilmente in quasi tutta Europa. Se, per esempio, ti trasferisci col passaporto europeo in un altro Paese, ti accolgono a braccia aperte, col passaporto marocchino decisamente meno.
Non vedi il tuo futuro in Italia?
Io vorrei continuare a vivere qui. Amo l’Italia e se siamo ancora qui è perché stiamo bene e siamo trattati bene. Ma non vorrei arrivare a laurearmi e guadagnarmi un certo livello sociale per poi sentirmi dire “Torna nel tuo Paese”.
Lo sento dire ogni giorno, anche se non direttamente a me. Non me lo dicono in faccia perché sanno di sbagliare, ma certe persone nutrono un odio per il diverso che mi spaventa. Diverso per cosa? Per un fazzoletto in testa?