Il piccolo Andrea, di appena 15 mesi, spinge la carrozzina della sua mamma. Si esercita nel muovere i suoi primi passi attaccato alla sedia a rotelle della madre, utilizzandola come un carrellino. È una delle più tenere immagini condivise da Laura Miola, una «mamma seduta» di 33 anni che, laddove non arriva con le gambe, compensa «con il cuore e con la mente».
Per 21 anni della sua vita, Laura ha convissuto con una malattia di cui non conosceva il nome. Cresceva dentro di lei, togliendole a 12 anni l’equilibrio e costringendola qualche anno più tardi sulla sedia a rotelle. Si è convinta a palesarsi e a rivelare la sua identità quando Laura era già adulta e aveva spento 24 candeline. «Trovare un difetto genetico nel Dna è come cercare un ago nel pagliaio» ci spiega Laura. Alla fine, è avvenuto «il miracolo»: si chiamata Charcot-Marie-Tooth quella malattia genetica neurodegenerativa che si era manifestata per la prima volta quando Laura aveva 3 anni e che da allora era rimasta anonima.
Con la diagnosi, è arrivata anche l’attesa notizia: la malattia non avrebbe avuto conseguenze sulla tanto desiderata maternità di Laura. «La mia preoccupazione più grande era di trasmettere la mia malattia ai miei figli. Oggi so che è recessiva» racconta. A coronare il romantico amore di Laura e del marito Salvatore sono arrivati nel 2018 Ferdinando e nel 2022 Andrea, che hanno rispettivamente quasi 5 anni l’uno e 1 anno e tre mesi l’altro.
«Ho bisogno di aiuto in alcune cose, ma si tratta di un aiuto fisico, perché di cuore e di mente la mamma è quella». Laura, dottoressa in Comunicazione e attivista, è una mamma combattiva che ha deciso di portare la sua storia tra gli scranni della Camera dei Deputati, dove lo scorso 11 maggio, pochi giorni prima della Festa della Mamma, ha presentato una proposta di legge in sostegno delle madri con disabilità, insieme ad Antonella Tarantino, presidente dell’associazione “Disabilmente Mamme”. Tra i suoi punti, il disegno di legge prevede percorsi sociosanitari per mamme disabili di accompagnamento alla gravidanza e al post partum. «Gli ospedali non sono adeguatamente attrezzati per assisterci. Dovrebbe esserci più attenzione verso le donne disabili».
Laura, da quanto fai i conti con la disabilità?
I primi sintomi della mia malattia sono iniziati quando avevo 3 anni, però fino ai 12 anni ho camminato in autonomia. Dopodiché sono arrivate le stampelle, fino a quando le gambe non mi hanno retto più e sono finita in sedia a rotelle. Mi è stata diagnosticata la Charcot-Marie-Tooth, che è una malattia neurodegenerativa, quindi è stato un peggioramento progressivo.
Cosa significa essere «una famiglia normale con una mamma seduta»?
È una definizione che utilizzo per descrivere la nostra famiglia trasmettendo il concetto di normalità nella diversità. Penso che non esista un unico modello di famiglia. Ci sono tante famiglie normali e, allo stesso tempo, diverse nella loro normalità.
Hai mai avuto paura che la disabilità ti impedisse diventare mamma?
La diagnosi è arrivata con 21 anni di ritardo, all’età di 24 anni. Io lo chiamo miracolo. Prima di allora, quando pensavo alla maternità, la mia preoccupazione più grande era quella di trasmettere la malattia ai miei figli, nonostante avvertissi un grande desiderio di diventare mamma.
Per 21 anni della mia vita sono rimasta all’oscuro del nome della mia malattia. Non sapevo, quindi, se si trattasse di una malattia di origine genetica e se ci fosse il rischio di trasmissione. Ad oggi, avendo ricevuto una diagnosi, so che la mia è una malattia di tipo recessivo, perciò non si manifesterà nei miei bimbi, dal momento che mio marito è sano.
Durante il parto e la gravidanza, medici e strutture erano pronti alle esigenze di una donna in carrozzina?
Fortunatamente per le mie due gravidanze sono stata seguita da due ginecologi meravigliosi e umani. Anche il personale sanitario è stato gentile. Il problema è che gli ospedali non sono adeguatamente attrezzati: non c’è, ad esempio, il lettino che si alza e abbassa, non c’è il poggiapiedi per le donne in carrozzina. Proprio per questo motivo sono stata alla Camera dei Deputati per proporre una legge in favore delle donne con disabilità.
Tante donne con disabilità che dovrebbero sottoporsi a controlli di routine a volte non entrano in ospedale per non ritrovarsi in queste situazioni scomode. Il personale non è preparato per sollevarti e metterti sul lettino. Io avevo mio marito che mi aiutava, però una donna che non ha qualcuno si trova in difficoltà.
Come hai spiegato a tuo figlio più grande, Ferdinando, la tua disabilità?
Ancora non c’è stata una vera e propria spiegazione. Lui sa che a me non funzionano bene le gambe e che ho una carrozzina che mi aiuta a muovermi. I miei due nipoti più grandi, i figli di mia sorella, sono cresciuti con me e non mi hanno mai fatto quella domanda specifica perché loro sanno che io ho un problema e uso la carrozzina. Hanno sempre vissuto la mia disabilità con grande naturalezza. Una volta, mio nipote si era fatto male al piede e mi ha detto: “Zia mi devi prestare la sedia perché non riesco a camminare”. Un’altra volta, eravamo andati a San Giovanni Rotondo, abbiamo camminato tanto e scherzavano, affaticati: “Zia, tu sei fortunata: hai la sedia, mentre noi dobbiamo camminare”.
È difficile essere una mamma in carrozzina?
Il lavoro di mamma non è mai semplice, e laddove serve un aiuto, bisogna chiederlo perché non c’è nulla di male a farlo. Questo vale per tutte le mamme. Io ho bisogno di aiuto in alcune cose, e fortunatamente ce l’ho. Ma si tratta di un aiuto più fisico, perché di cuore e di mente la mamma è quella.
Qualcuno ti ha mai fatta sentire in difetto?
A dir la verità no. Anche sui social, dove mi seguono molte mamme, ho trovato tanto affetto. Ne sono veramente grata.
Come ha vissuto tuo marito la tua disabilità?
Stiamo insieme da quando io avevo 12 anni. Lui è sempre stato consapevole della mia condizione. Anzi, ad un certo punto io gli ho detto: “Devi decidere tu della tua vita, se te la senti o meno”. Ma lui mi ha sempre risposto: “Con te sono una persona migliore”. Amore significa anche superare le difficoltà insieme. È facile quando è tutto bello, tutto perfetto. Quando abbiamo ricevuto la diagnosi e il dottore ci ha comunicato che potevamo avere figli sani come tutti, mio marito mi confidò: “Io sono contentissimo di questa notizia, ma sappi che anche se la risposta fosse stata diversa ti sarei stata accanto ugualmente”. Credo che quella sia la frase più bella che potesse dirmi.
L'Italia offre servizi sufficienti a supporto delle famiglie con disabili?
La strada è ancora lunga, perché è un cammino, è un progredire continuo, giorno per giorno. Ma non voglio trasmettere un messaggio negativo e sostenere che “non funziona niente”, perché 15 anni fa tante cose che ora ci sono prima non c’erano. Sono positiva e vedo che le cose stanno andando avanti. C’è sempre più attenzione verso il tema della disabilità e questo mi dà fiducia.
Per esempio, che cosa prima mancava e ora è stato introdotto?
Le barriere architettoniche. Prima non c’era l’obbligo che tutte le spiagge avessero la passerella, magari esistevano le leggi ma non si rispettavano. Non dico che ora vada tutto bene. Anzi, mi capita ancora di arrivare in un posto e trovare i gradini. Quello ti fa male perché ti fa sentire diversa, del tipo “tu puoi e io no”. Però vedo che adesso c’è più attenzione.
Nel 2019 sei stata scelta come delegata del tuo Comune alle politiche di inclusione sociale. Perché ci tieni a raccontare la tua condizione?
Io penso che tutti noi possiamo dare il nostro contributo per migliorare qualcosa anche in piccolo. Se la mia esperienza può essere d’aiuto a qualcuno sono felice. Il mio sindaco quando mi ha dato questa carica, mi ha chiesto di aiutarli “a vedere le cose che mancano” che magari loro non vedevano, non vivendo in carrozzina. Oggi non ricopro più l’incarico ma sono sempre a disposizione della comunità.
Cosa manca per essere una società “disability friendly”?
Detesto la parola “disability friendly”, mi ricorda la dicitura “pet friendly”. L’inclusione vera ci sarà quando non avremo più bisogno di queste definizioni. È come se si volesse includere e integrare qualcosa di diverso in un contesto, un contesto che invece dovrebbe già essere inclusivo per tutti. La disabilità dovrebbe essere vista come qualcosa di normale nella società, non di distante. Sarà un grande giorno, quando, se si dovesse costruire un parco, lo si progetterà con una visione inclusiva. Quando la disabilità non verrà più percepita come qualcosa che dobbiamo integrare.