Le case rifugio che accolgono le mamme vittime di violenza con i loro figli. La responsabile: “Li aiutiamo a rimettere in circolo relazioni ed emozioni dopo gli abusi”

A Milano e nel suo hinterland esistono delle case rifugio che ospitano mamme vittime di violenza domestica e i loro figli. A gestirle è la cooperativa sociale La Grande Casa, che si occupa di aiutare le madri e i piccoli che scappano da uomini maltrattanti «a ripartire, a ricostruire una quotidianità serena e sicura, a rimettere in circolo relazioni, emozioni e sentimenti dopo gli abusi subiti». Wamily è entrata nella sede della cooperativa.

25 Novembre 2023
9:00
69 condivisioni
Le case rifugio che accolgono le mamme vittime di violenza con i loro figli. La responsabile: “Li aiutiamo a rimettere in circolo relazioni ed emozioni dopo gli abusi”
Intervista a Dott.ssa Paola Guaglianone & Lorena Spohr
Responsabile Territoriale della cooperativa La Grande Casa e Coordinatrice di un'équipe di educatrici delle case rifugio
Immagine

A volte le madri arrivano con la valigia in mano, gonfia di vestiti ed effetti personali. A volte, invece, arrivano con la borsetta in spalla, il piccolo in braccio o per mano e addosso i jeans e la maglietta che si erano infilate di fretta quella mattina, quando si erano finalmente convinte a fuggire di casa.

A scappare da quell’uomo – marito, compagno, padre dei figli – che da tempo le picchiava, controllava il loro portafogli, i messaggi sul telefono e la busta della spesa, e insinuava che non erano in grado di occuparsi dei figli, della casa, di lui. Insieme alle donne, arrivano i figli, con qualche anno di vita o adolescenti, che a loro volta hanno subito violenza, diretta o assistita, e si trascinando dietro ricordi di lividi sullo zigomo della mamma e di pianti sommessi uditi dalla cameretta. Sono gli ospiti delle case rifugio gestite da La Grande Casa, cooperativa sociale che si occupa, tra le altre cose, di accogliere le donne in fuga da situazioni di violenza domestica e maltrattamento con i loro bambini e ragazzi.

Wamily ha incontrato la dott.ssa Paola Guaglianone, Responsabile Territoriale della cooperativa con sede a Sesto San Giovanni, in provincia di Milano, e la dott.ssa Lorena Spohr, Coordinatrice di una delle équipe di educatrici che quotidianamente seguono mamme e figli negli alloggi rifugio.

La ricostruzione di una quotidianità sicura

«La casa rifugio è una casa normale, non un istituto – spiega Paola Guaglianone, – . Mamme e figli all’arrivo trovano un ambiente familiare e accogliente, un piccolo pensierino di benvenuto e le chiavi dell’alloggio. Noi li aiutiamo a ripartire, a ricostruire una quotidianità, a rimettere in circolo le relazioni, le emozioni, i sentimenti». Le donne, a volte da sole, a volte con i propri figli al seguito, entrano negli appartamenti gestiti dalla cooperativa. «Arrivano su richiesta dei centri antiviolenza, del Pronto Soccorso o delle Forze dell'ordine che identificano un livello di pericolosità tale per cui le madri coi figli sono invitate a lasciare temporaneamente la casa familiare».

Le case rifugio, dislocati in condomini civili sul territorio di Milano e nel suo hinterland, non sono riconoscibili dall’esterno per una questione di sicurezza e di riservatezza. «Sono donne in fuga, – continua Guaglianone – a volte arrivano accompagnate dalle Forze dell’ordine o dalle operatrici dei centri antiviolenza. C’è chi ha avuto il tempo di decidere di allontanarsi e si è preparata, e chi viene solo con i vestiti che aveva addosso prima di uscire di casa».

La dott.ssa Spohr, insieme a una squadra di educatrici, lavora quotidianamente nelle case rifugio. «Quando le madri scappano di casa e arrivano senza scorte di abiti le accompagniamo a comprare dell’abbigliamento, – racconta l’educatrice – a volte sono spaesate: anche acquistare un giaccone diventa complicato, perché per lungo tempo è stata loro tolta la libertà, la possibilità di scegliere per se stesse, l’indipendenza».

In poco tempo madri e figli riprendono una vita normale, tra lavoro, scuola e tempo libero. Portano al parco i figli, e nella loro casa rifugio – in cui restano per il tempo strettamente necessario a uscire dal pericolo – organizzano festicciole di compleanno per i piccoli e invitano i loro amichetti.

Immagine

Durante l’anno a donne e bambini vengono proposte attività artistiche ed espressive, laboratori di scrittura e autobiografia, gite fuori porta, vacanze, eventi culturali. E nel periodo natalizio sono invitati alla cena di Natale, una festa organizzata negli spazi della cooperativa La Grande Casa, con portate di dolci e pietanze, una tombola di gruppo con premi come trucchi e pupazzi, e giochi di gruppo.

Immagine
Le mamme della casa rifugio con i figli durante una vacanza

La reazione dei figli e la violenza assistita

I figli tra le mura domestiche subiscono a loro volta violenza in forma diretta o assistita. «Una violenza assistita a 3 anni produce una reazione diversa rispetto che a 10, sia per la durata, sia per la capacità intellettiva di rielaborazione» spiega la dott.ssa Lorena Spohr, che insieme a educatrici e pedagogiste lavora a contatto diretto con gli ospiti di due case rifugio gestite dalla cooperativa.

«I piccoli arrivano disorientati, più che impauriti, – continua – il loro recupero è lento e delicato e in tanti casi il quadro di violenza non è riconosciuto. Quando li accogliamo non trattiamo immediatamente l’argomento, quello che offriamo nell’immediato è un posto sicuro. Hanno bisogno di ricostruire una quotidianità normale, vivere la scuola, le amicizie, lo sport, esperienze positive di svago, serenità, equilibrio».

I segni di violenza assistita a volte emergono nel tempo e si manifestano nei più piccoli attraverso risvegli notturni frequenti, incubi, difficoltà nell’apprendimento, nell’intrattenere informazioni e nelle capacità mnemoniche.

Capita che la violenza sulla mamma non venga vista direttamente dal figlio: viene, se mai, sentita, ascoltata, percepita. «Può succedere che il figlio sia in un’altra stanza e non veda quello che sta accadendo alla sua mamma, ma colga altri elementi dall’ambiente, come parole, grida, silenzi, suoni attutiti, pianti sommessi – aggiunge Guaglianone – . Oppure a volte i figli si accorgono dei lividi sul corpo della madre, del loro viso prostrato. In più va ricordato che i bambini hanno una sensibilità accentuata, capiscono il non detto, sentono se qualcosa non fa stare bene la persona a cui vogliono bene. Sono piccole cose che giorno per giorno si insinuano in loro e ne influenzano lo sviluppo, la crescita, la vita futura, ma che si possono affrontare e risolvere».

Esistono per finire casi di violenza subita direttamente, oltre che dalla madre, dai figli.

Immagine
Disegno realizzato da uno dei bambini della casa rifugio

Come spiegare la violenza di genere a bambini e adolescenti

«Dopo un primo periodo di assestamento, insieme alle mamme parliamo con i bambini e gli adolescenti e ci confrontiamo sul motivo per cui si trovano in casa rifugio – spiega Spohr – . La reazione dei figli in genere è di sorpresa: sono stupiti per il fatto che si possa parlare di quello che è accaduto. Credo che, comunque, la rielaborazione parta, oltre che dall’esplicitazione, anche e soprattutto dalla ricostruzione nel tempo di una quotidianità diversa in cui il bambino possa fare il bambino».

Uno degli interventi preventivi più efficaci per contrastare i maltrattamenti contro le donne è insistere nell’educazione alla non violenza e alla parità di genere. «È un argomento complesso,  – risponde Spohr – in generale più la società è informata, meglio è, anche se ovviamente gli interventi vanno adeguati alle fasce d’età. I più piccoli vanno sollecitati a un pensiero sugli stereotipi. I bambini in particolare hanno un senso della giustizia particolarmente sviluppato, quindi si tratta di stimolare il loro senso critico e proporre occasioni di riflessione e scambio tra pari».

Differenza tra figli maschi e figlie femmine

La violenza domestica ha delle ricadute diverse sui figli maschi e sulle femmine. «Il maschio reagisce generalmente in due modi, – spiega Spohr – o sperimenta un senso di impotenza perché non può difendere la mamma oppure, se vive l’infanzia in un ambiente domestico violento, può assumere che quella che vede in casa è una situazione possibile, che può verificarsi nella vita e nelle relazioni affettive. Il grosso lavoro consiste nello spezzare la catena generazionale di violenza».

Una mamma che scappa insegna alla figlia femmina che nella violenza non si resta

«Per le femmine, invece, vedere il loro modello femminile, cioè le mamme, oggetto di violenza, le espone di più al rischio di avvicinarsi a modelli di relazioni violente in futuro – continua l’educatrice –. Quando ospitiamo mamme con figlie femmine spieghiamo loro che allontanandosi dalla violenza stanno offrendo un insegnamento alle loro figlie, cioè che nella violenza non si resta».

A volte i figli si arrabbiano perché entrano in casa rifugio, cambiando la scuola in corso d’anno, gli amici, i giocattoli, i punti di riferimento. Si tratta, però, di un periodo, che come ha un inizio, ha pure una fine. «A volte con le donne valutiamo di mantenere dei contatti estremamente affidabili, – aggiunge Guaglianone – Quella in casa rifugio è una fase temporanea, che permette di staccare la spina e di riprendere in mano la propria vita. Ci si può stare due giorni come qualche mese, fino a quando non si ritrova la serenità e un luogo sicuro dove stare. In tanti casi durante la permanenza nell’alloggio, il maltrattante viene arrestato o allontanato e la donna può poi rientrare nella casa familiare».

Storia di una fuga e di un sacchetto dell’immondizia

Sono centinaia le mamme che hanno vissuto nelle case rifugio della cooperativa La Grande Casa, attiva dagli anni Ottanta. Quando se ne sono andate, hanno lasciato delle storie. Racconti di lividi, schiaffi, soprusi, e racconti di rinascita, di metamorfosi, di recupero della consapevolezza del proprio valore, come donne e come madri. Una di loro è Alice (nome di fantasia), giovanissima mamma di due figli, di 4 e 6 anni, che è entrata nell’alloggio rifugio durante il lockdown, dopo essere fuggita di casa insieme ai piccoli con la scusa di andare a buttare la spazzatura.

Alice subiva di violenza fisica, psicologica, economica e sessuale da parte dell’uomo che aveva sposato. «Ha avuto il coraggio di scappare ed è stata ospite della casa rifugio per due anni – racconta Spohr – . I bambini hanno recuperato una parte di infanzia mentre lei si è riappropriata della sua genitorialità, ha ottenuto un titolo di studio e se ne è andata sulle sue gambe».

Immagine
Laboratorio di autobiografia

La violenza e le sue sfaccettature

Esistono diversi tipi di violenza di genere. Non si tratta esclusivamente di botte e lividi, perché anche gli abusi sessuali, il controllo economico, la svalutazione psicologica reiterati nel tempo sono forme di maltrattamento.

«La violenza ha tante sfaccettature, – risponde Guaglianone – è violenza quando il partner diventa controllante, monitora gli spostamenti della compagna, la allontana dalle amicizie o dalle reti familiari isolandola, le controlla il portafogli, il conto in banca e il cellulare, vincola le uscite di denaro, le nega di compiere acquisti perché “è lui che compra” e lei non può essere agente di scelta, neppure per l’acquisto della spesa o dei vestiti, non vuole che lei esca senza di lui, la svaluta come madre davanti ai suoi figli… Si tratta di violenza psicologica, particolarmente subdola perché è invisibile e si insinua nella vita di una donna piano piano, goccia a goccia».

L’uomo violento è un gentiluomo

La violenza ha un ciclo di vita. «Il partner inizialmente è un galantuomo, un principe azzurro, – spiega Guaglianone – riempie la compagna di attenzioni, la fa sentire unica e speciale, e poi, quando lei è completamente innamorata, inizia a mettere in atto comportamenti di svalutazione e/o di violenza. La donna si sente in colpa per quel che fa, si svaluta, è convinta di sbagliare continuamente e che è colpa sua se il partner è aggressivo o violento perché teme di averlo provocato».

A volte la violenza comincia dopo mesi di relazione, dopo un lento lavoro di riduzione dell’autostima della donna. «Le mamme ci raccontano che i loro compagni erano uomini particolarmente apprezzati fuori casa, generosi, gentili in apparenza, che si trasformavano nell’ambiente domestico – spiega Spohr – . Questo scoraggia ancora di più le donne dal parlare e denunciare, perché hanno paura di non essere credute».

Anzi, quando si subisce violenza da parte del partner, si tende a minimizzarla. «Le donne razionalmente ammettono “lui ha sbagliato”, ma poi spesso aggiungono “però ho sbagliato anche io perché se non l’avessi provocato lui…” – continua l’educatrice – . Il senso di colpa allontana dal riconoscimento della violenza, tanto è vero che parecchie donne si recano nei centri antiviolenza per chiedere conferma se hanno il dubbio di essere maltrattante. Il rischio è focalizzarsi sui momenti buoni, giustificando il compagno con frasi del tipo “è vero che mi ha picchiato, però poi mi ha chiesto scusa, si è pentito”».

A chi chiedere aiuto

È il centro antiviolenza a chiedere alla cooperativa (che è parte delle reti antiviolenza di Milano, Monza Brianza e Legnano) il collocamento di una donna sola o con figli dopo aver valutato il rischio. In altri casi, sono le Forze dell’Ordine a intervenire, chiamate a casa dalla donna o, per esempio, da un vicino: gli agenti se constatano la violenza intervengono possono accompagnare la donna e i suoi figli in una casa rifugio. Altre donne chiamano il numero verde antiviolenza 1522 e ricevono indicazioni sul centro antiviolenza più vicino a loro, che fornisce ascolto, consulenza legale, sostegno psicologico e, se serve, trova una casa rifugio in un luogo sicuro.

Avatar utente
Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
Sfondo autopromo
Famiglia significa NOI