Il nostro Pianeta si è offeso. L’abbiamo sfruttato, tradito, sciupato. Abbiamo approfittato della sua ospitalità radendo al suolo boschi e foreste, della sua generosità sciogliendo ghiacciai e seccando torrenti, della sua ricchezza estinguendo intere specie animali, della sua floridezza costruendo abitazioni sulle prospere colline, della sua bellezza sporcandolo con la plastica e con le industrie. E adesso, ci attende in cassa un conto salato da pagare. Il futuro ci spaventa, e la crisi climatica incombe su di noi come una tagliente spada di Damocle. Tutto vero. Ma siamo sicuri che non fare figli sia una scelta che salvaguarda il pianeta?
Chi aderisce al movimento anglosassone Birthstrike, fondato nel 2019 dall’attivista climatica Blythe Pepino, ha, fra i suoi credo, quello dello stop alla procreazione a causa della crisi ambientale. Una scelta sicuramente estremista che, al di là del fine nobile e della battaglia condivisibile, lascia però spazio a dubbi e perplessità, come le nostre.
Decidere di non avere figli è un diritto inalienabile, da rivendicare con tutte le nostre forze laddove sia ostacolato, o negato. Ma indire uno sciopero della procreazione in nome della crisi ambientale è una presa di posizione di tutt’altra pasta.
Il birthstriker è convinto che quella di concepire un bebé sia una forma di egoismo. Quel neonato nel giro di dieci o, nella migliore delle ipotesi, vent’anni sarà un adolescente arrabbiato con chi gli ha donato la vita in un mondo già condannato a morte. Ma l’egoismo, anziché in chi partorisce in un pianeta inquinato, non sta forse in chi incrocia le braccia e aspetta inesorabilmente la nostra fine? Chi opta per la non gravidanza a prescindere ha veramente a cuore la Terra? Il suo obiettivo è quello di salvare il pianeta, o di salvarsi dal pianeta, lavandosi le mani di quello che sarà?
Che le sfide climatiche davanti a noi siano ambiziose, è un dato di fatto. Ce lo confermano le catastrofi a cui stiamo tristemente assistendo. Che sia stato ampiamente superato il limite, pure. La Terra si è stancata di lanciare segnali di allarme, e a forza di gridare «Al lupo!», il lupo è arrivato davvero. Ma vivere nella convinzione che l’unica strada percorribile sia quella dell’arrendevolezza, del gettare la spugna, non rientra nell’indole dell’uomo, che per natura è animato dallo spirito di sopravvivenza e che in quanto essere vivente, vive.
Ricordiamoci che conviviamo con 8 miliardi di persone. Popoli, culture e bandiere che viaggiano a una velocità diversa, e che hanno stili di vita e valori diversi dai nostri e difficili da allineare. Culture lontane da quella occidentale, spesso fondate su società in cui la famiglia numerosa e la procreazione sono fonte di ricchezza e di lavoro.
Fare un figlio è innanzitutto l’inizio di un progetto di amore e di vita. E una scelta di coraggio. Ancora di più, lo è crescerlo in un mondo malconcio e pericoloso. Ma se è malconcio e pericoloso, non lo si deve esclusivamente all’inquinamento e alle industrie. Lo si deve pure alle guerre, alle crisi economiche che vanno e vengono, al terrorismo più spietato, alla pazzia umana, agli incidenti del destino.
Nostro figlio ci disprezzerà per averlo messo al mondo quando il mondo sta tramontando? Forse. Non abbiamo una sfera magica. Quello che abbiamo, oggi, è la possibilità di crescerlo educandolo alla responsabilità per la Terra, per la natura e per quel che ci circonda.
Sensibilizzare e formare adulti consapevoli della crisi climatica in atto e attivi nel contrastarla con i piccoli gesti di ogni giorno è l’unica via per salvare la nostra specie, e il nostro pianeta.