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13 Giugno 2023
18:00

Luciano Spinelli, dal bullismo al coming out: «Ho sempre saputo di essere gay, ma negavo per paura di sembrare sbagliato»

Luciano Spinelli, star del web dai numeri record, racconta a Wamily il suo passato travagliato, tra il bullismo tra i banchi di scuola e il percorso di accettazione personale, fino al coming out con i genitori.

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Luciano Spinelli, dal bullismo al coming out: «Ho sempre saputo di essere gay, ma negavo per paura di sembrare sbagliato»
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A 7 anni vuoi addormentarti sul divano ed essere trasportato a peso morto a letto da un genitore intenerito. Vuoi mangiare quella pallina di gelato in più e ordinare la pizza “da grandi”, perché ti sei stufato della “baby”. Senza dubbio, a 7 anni non vuoi capire qual è il tuo orientamento sessuale. Non vuoi essere deriso se giochi «con le femmine». Non vuoi essere il bersaglio dei bulli, che ti hanno appiccicato un’etichetta addosso, che, anche se ti sfreghi la pelle, non va via. «Sei gay» ridacchiano. «Sei una femminuccia» ti indicano. Giudizi e commenti non richiesti che lasciano il segno, come ci racconta Luciano Spinelli, classe 2000, content creator dai numeri record. La sua rivincita sul bullismo omofobico, subìto fin dall’infanzia, se l’è intascata quando nella sua cameretta, lontana dall’ingenua impertinenza dei coetanei, ha iniziato a girare video.

Mentre tra i banchi di scuola veniva escluso e additato come “diverso”, i suoi seguaci virtuali diventavano centinaia, migliaia, milioni. A loro, nel 2017 Lu ha scelto di raccontare l’esperienza del bullismo, e con loro nel 2021 si è liberato dell’ultimo macigno, disegnando il suo coming out in un video. Ad ogni filmato, un sospiro di sollievo, dopo anni in cui il respiro l’aveva trattenuto per paura di essere giudicato. «Ho sempre saputo di essere gay, fin da bambino sentivo qualcosa di bello ma che non era simile a quello che veniva raccontato dai miei compagni maschi – ci racconta con la spontaneità e la naturalezza che lo contraddistinguono – da bimbi non si ha la maturità per capire quello che si sta provando, lo si vede come una cosa neutra». E, invece, intorno a lui, compagni, adulti e perfino insegnanti (con qualche dolce eccezione) avevano fretta di inculcarglielo quel pensiero, che si è insinuato come un tarlo in lui, fino a quando non sono arrivati l’accettazione e la consapevolezza di sé.

«Il vivere a cuor leggero è venuto negli anni, quando ho imparato a vivere e basta. – continua – Ho cercato di far capire come sia bella la vita, come sia giusto viverla con leggerezza, senza troppe paranoie, senza la costante paura di essere giudicati». Oggi Lu ha 23 anni ed è felicemente fidanzato da due.

Com’era il Luciano bambino?

Ero un bambino fantasioso, felice, entusiasta della vita, però, crescendo, mi sono ritrovato a dover affrontare giudizi ed etichette negative. Mi piaceva stare al centro dell’attenzione, raccontare, parlare, ma dopo certi episodi ho iniziato a chiudermi in me stesso, ad essere introverso, timido. Almeno, al di fuori della mia comfort zone, perché in famiglia ero il solito Luciano.

Quando mi sentivo dire: «Sei gay» o cose peggiori, da parte mia c’era subito il rifiuto perché quell’etichetta purtroppo veniva data con negatività. Non era del tipo: «Potresti essere gay, ma non c’è niente di male». No, era vista come una cosa negativa, come “Hai rubato”. Ti sentivi in colpa, quindi lo negavi perché non volevi sembrare agli occhi degli altri sbagliato, o una persona che per la società è sbagliata. Ho capito crescendo come gestire le mie emozioni, ho imparato a non averne più paura, circondandomi di persone che mi volevano bene per quello che ero, perché ero e sono Luciano.

È triste etichettare un bambino, quando ancora non sa lui per primo di avere un’etichetta…

Sì. Un bambino ha ancora tanto tempo per capire e vivere la sua sessualità, ed è un tempo che viene tolto. Da piccoli siamo innocenti, viviamo per favole, storie, giochi. Se viene imposto a un bambino il dover capire cosa è già, soprattutto in negativo, crei un trauma. Se all’epoca a me fosse stato detto che non c’era niente di male ad essere gay o a giocare con le femmine, non sarei cresciuto col pallino di capire cosa fossi per sentirmi giusto, e le cose sarebbero venute con calma, tranquillamente, senza troppe preoccupazioni. Purtroppo si hanno tante paure e negli anni vivi con l’ansia di poter essere quello che ti hanno sempre detto che eri.

Lo noto anche al di fuori dell’orientamento sessuale: se un bimbo ha qualche difficoltà, gli viene detto: «Sei stupido e non capisci niente». Anche queste sono etichette negative, perché quel bambino crescerà pensando di essere sbagliato, quando magari non ha capito una cosa o sta vivendo un momento difficile. Essendo sempre stato emarginato, sono diventato automaticamente empatico con gli altri. Mio fratello, ad esempio, ha avuto delle difficoltà a scuola e molti professori dicevano che non ce l’avrebbe mai fatta ad andare bene, mentre ora alle superiori prende tutti 9 e 10. Ha avuto una famiglia che l’ha supportato e gli ha detto di credere in sé, e questo ha dato i suoi frutti. Lui ora è soddisfatto e si è preso le sue rivincite. Si dovrebbe dare più supporto, piuttosto che giudicare o far sentire sbagliata una persona.

Come hai vissuto gli anni della scuola elementare?

Non sono stati anni facili. Avevo una maestra di italiano e arte, Laura, che era un punto di riferimento per me, l’unica che non mi faceva mai sentire sbagliato, mentre con altre persone non mi sono mai trovato, perché avevano pregiudizi forti. Se venivo preso in giro dai miei compagni, mi veniva detto di giocare con i maschi e non più con le femmine, così magari non mi avrebbero più preso in giro. Questa maestra mi ha portato con lei facendomi sentire speciale, mi ha trasmesso la passione per il disegno e mi ha spronato a fare di più in anni in cui pensavo di essere sbagliato in tutto.

Qualcuno ti difendeva?

No. Non ne faccio una colpa a qualcuno perché eravamo tutti bambini, e capisco che non sia facile per una persona mettersi dalla parte dell’escluso, se no automaticamente vieni escluso anche tu. Alle medie, finalmente, ho trovato un vero amico, il mio migliore amico, che aveva capito tutto senza che glielo dicessi. Per difendermi non diceva: «No, non è vero, non è gay», ma semplicemente di smetterla e di lasciarmi in pace. È l’unica persona che mi ha difeso negli anni di scuola, e mi dispiace che oggi ci siamo persi di vista.

Ti sentivi solo, quindi…

Abbastanza. Alle medie avevo pochi amici, e quando finalmente sono riuscito ad entrare in un gruppo è venuto fuori che mi piaceva un ragazzo della mia classe e mi hanno tagliato fuori. Non mi dicevano più quando uscivano.

Hai più incontrato i tuoi ex bulli o compagni che ti prendevano in giro?

No, per fortuna. Nella mia testa da bimbo l’obiettivo era non vederli mai più, e così è stato. Dentro di me, però, ogni tanto penso: «Chissà, probabilmente mi avranno visto… Quello che veniva considerato sfigato, che non avrebbe mai fatto nulla nella vita, ora fa tante cose». Però poi mi concentro su di me, preferisco soffermarmi a pensare a quanto sia felice di quello che mi sono conquistato negli anni.

Quando nel 2021 hai fatto coming out in un video, non avevi paura di rivivere il bullismo vissuto da piccolo?

In realtà no. Avevo raggiunto una consapevolezza tale per cui l’essere omosessuale non era più una cosa di cui vergognarmi, di cui aver paura. Avevo capito che è come essere diversi per il colore dei capelli, degli occhi, dell’incarnato. Tutti siamo diversi, neanche i gemelli sono uguali.

Arrivi a un punto in cui capisci cosa significa imparare ad accettarsi. Essere gay non è una caratteristica ma è una cosa a prescindere da quello che sei tu. Io sono Luciano prima di tutto, è questa la cosa più importante, poi il resto è un “in più”.

Eri preoccupato all’idea di rivelarlo ai tuoi genitori?

Un po’. Il coming out è una cosa personale e quando ti ritrovi a farlo coi genitori c’è sempre quell’agitazione di fondo. Loro sono sempre stati aperti mentalmente, nonostante ciò non è stato facile raccontarmi. Io mi ricordo di aver pianto tantissimo, non per paura, ma per liberazione, perché quando dici ad alta voce una cosa per cui ti sei sentito sbagliato per tutta la vita, è come stappare un barattolo di emozioni che hai tenuto lì per anni e anni, e crolli. So che non tutti hanno la fortuna di avere genitori che reagiscono bene, motivo per cui dico sempre che non è obbligatorio fare coming out e soprattutto non è necessario farlo con la famiglia. Arriverà il momento in cui ci si sentirà pronti per aprirsi e l’emozione sarà fortissima.

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Perché è importante parlare pubblicamente di temi come bullismo e coming out?

Mi sono reso conto di poter dare una mano a tante persone raccontando il mio vissuto. Mi sono sentito gratificato. Vedere i genitori che mi venivano a ringraziare perché, guardando un mio video o leggendo i miei libri, i figli si sono aperti con loro e hanno avuto così la possibilità di aiutarli è stato emozionante. Sono cose che mi hanno aperto gli occhi e mi hanno fatto capire a 17-18 anni quanto potenziale avessi io e quanto potenziale potesse avere qualsiasi persona.

Il mio obiettivo era far capire che ciò che mi aveva fatto star male mi aveva portato ad essere la persona che ero in quel momento. Ed è una cosa che secondo me aiuta i ragazzi che vivono questi momenti, perché li spinge a concentrarsi su ciò che di positivo possono trarre in tutto quello schifo. Ho sempre cercato di trasmettere il messaggio che ci sono questi momenti ma che poi ci saranno anche le rivincite.

Molte di queste persone che una volta mi dicevano di stare male, a distanza di anni le ho riviste forti, diverse, sicure. Magari ho inciso io o magari qualcos’altro, ma sono fiero di aver trasmesso dei valori, dei consigli utili. Non mi voglio prendere il merito, ma mi fa piacere pensare che alcune di queste persone oggi abbiano una consapevolezza diversa di se stessi e vivono. Vivono e basta.

È ancora presente l’omofobia tra i giovanissimi?

Purtroppo sì. Sicuramente c’è più apertura mentale rispetto a una volta, ma allo stesso tempo penso ci sia ancora tanto da fare. Nel mio piccolo sto lavorando per far sì che le cose migliorino. Purtroppo molti giovani sono condizionati dalle famiglie. L’omofobia, come il bullismo, non è una cosa che si può estirpare così facilmente. Per fortuna oggi c’è anche tanta gente che finalmente parla, o si mette in prima fila per combattere e cambiare le cose.

Cosa ti ha lasciato il bullismo?

Una grande sensibilità. Prima mi sembrava un difetto essere sensibile, adesso capisco quanto sia un dono. Può farti star male perché quando sei sensibile ti fai influenzare dalle emozioni degli altri, ma ti avvicina tantissimo alle persone, e mi ha dato la possibilità di fare questo lavoro. Nonostante la mia sensibilità, però, non non mi sono mai fatto tirar giù dai commenti negativi sui social.

Probabilmente avevi già una bella corazza…

Sì, esatto. Ero talmente abituato ai giudizi negativi dall’infanzia che, quando ho iniziato questo percorso, nella mia testa c’era solo l’obiettivo di vivere altro. Non li guardavo neanche i commenti negativi, ero già abituato a farmeli scivolare addosso. Negli anni sono andati scemando, sono sempre stati meno. Quello che mi diceva mia madre era: «Luciano, non soffermarti su un commento negativo, leggi gli altri mille positivi». Accade anche nella vita: nonostante ci siano tante cose belle, tendiamo a soffermarci su quella negativa.

Vedi il successo come una rivincita sul passato?

È una rivincita, ma la percepisco più come una vittoria personale. Son partito che volevo la rivincita e forse i primi anni l’ho vissuta così, ma poi andando avanti l’ho vista più come una staffetta contro me stesso, un continuare a mettermi in gioco, a sfidarmi, traguardo dopo traguardo.

Il tuo prossimo obiettivo?

È più personale. Voglio raggiungere una serenità e felicità tali da capire quali altri obiettivi prefiggermi. Devo arrivare a una serenità mia personale per capire cos’altro raggiungere.

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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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