Un’infanzia segnata dal bullismo, dalle risate di scherno, dai “chiattone” e “femmenèllo” urlati contro di lui a ricreazione, dalla sindrome del perfezionismo tra i banchi di scuola e le mura di casa, dall’amore nascosto per la danza. Un lento percorso a ostacoli, fino ai 19 anni, anno del suo coming out, che ha rappresentato la rivoluzione delle rivoluzioni, il giorno della liberazione, la metamorfosi da crisalide a farfalla dopo anni di bugie, nomi maschili storpiati in femminili e cuore pesante per un adolescente che odiava mentire a mamma e papà.
Mariano Gallo, in arte Priscilla, 46 anni, dal 2021 è al timone di Drag Race Italia. In una lunga chiacchierata definita «terapeutica», la drag queen più famosa d’Italia ha raccontato a Wamily la sua storia, ripercorrendo all’indietro il nastro della memoria. Dalla discriminazione di ieri e di oggi, al rapporto ricucito con la madre, che quando Mariano rivelò di essere gay svenne e domandò al marito come curarlo, mentre con il tempo ha imparato ad accoglierlo ed è diventata la sua prima sostenitrice, tanto da fare le ore piccole per cucire e ricamare i primi abiti di scena da Priscilla.
Oggi Mariano sogna di costruire una famiglia sua, di trovare un compagno e magari di adottare un figlio.
Partiamo dall’inizio. Che infanzia è stata la tua?
Ero un bambino alla continua ricerca del consenso. Studiavo tanto, volevo essere il primo della classe, a casa ero ordinato, desideravo sentirmi all’altezza. Le maestre ai colloqui mi definivano un bambino “sensibile e artistico”: ad oggi lo interpreto come un modo carino per dire: “Signora, suo figlio è gay”. Avevo modi di fare femminili, una voce particolarmente acuta, ero cicciottello, e tutto questo ha fatto sì che diventassi oggetto di bullismo. Mi risuonano ancora in testa due parole che mi ripetevano continuamente alle elementari: chiattone e femmenèllo. I bambini non conoscono la cattiveria ma, inconsapevolmente, sanno essere cattivi. Magari a casa sentono termini discriminanti utilizzati dai familiari, ne colgono lo spirito e l’intenzione e li riutilizzano a scuola contro i coetanei.
Ricordi un episodio di bullismo in particolare?
Erano più degli “appuntamenti” fissi. Durante l’ora di educazione fisica non volevo giocare a calcio con i maschi perché odiavo la competizione, preferivo trascorrere il tempo con le femmine, e per questo motivo venivo preso in giro. Il bersaglio ero io: i miei compagni di classe esultavano di più quando colpivano me con il pallone rispetto a quando facevano goal in porta.
Poi, quando uscivo da scuola, arrivava il resto. Abitavo a poche centinaia di metri, e non appena imboccavo la strada di casa, trovavo quattro bambini ad aspettarmi dietro l’angolo. A quel punto iniziavano calci e spintoni. All’epoca non avevo le cuffiette per ascoltare la musica e non riuscivo ad isolarmi, quindi l’incontro me lo vivevo intensamente. Mi ricordo come fosse ieri la sensazione di quando rientravo a casa: mi sentivo profondamente arrabbiato, più con me stesso che con loro perché non riuscivo a ribellarmi, perché permettevo loro di picchiarmi.
I tuoi genitori ne erano al corrente?
No. A casa mi chiudevo nel silenzio, nella solitudine, non ne parlavo con nessuno, ed indossavo la maschera del figlio perfetto, con la cameretta ordinata e i compiti finiti.
Nel mio quartiere però avevo trovato il mio rifugio: vicino a casa mia c'era una scuola di danza e io, che amavo quella disciplina ma non avevo i soldi per studiarla, mi sedevo sul marciapiede e ascoltavo dalla finestra le lezioni. Sentivo il musicista che suonava il pianoforte dal vivo e la maestra che impartiva la lezione. Era il mio mondo felice.
Un giorno presi coraggio ed entrai, avevo 10 anni, frequentavo la quinta elementare, e chiesi alla segretaria di fare una lezione di prova, assicurandole che mia madre sarebbe venuta per iscrivermi. Non era vero: mia mamma non sapeva nulla, non avrei mai avuto il coraggio di chiederglielo, quindi seguii quella lezione e non ci andai più. Ma qualche settimana dopo al mercato incontrai con mia mamma la segretaria, che mi riconobbe e ricordò a mia madre: “Signora, noi la stiamo aspettando!”. Fu allora che la mia famiglia scoprì che volevo studiare danza.
Com’era la tua famiglia?
Sono cresciuto a Napoli, in una famiglia “molto famiglia”. Mio padre lavorava al porto come scaricatore, usciva di casa all’alba e rientrava a notte fonda, io non lo vedevo mai. A volte di domenica, quando non lavorava, lo incontravo in corridoio ed entrambi eravamo imbarazzati, non riuscivamo a guardarci perché eravamo come estranei.
Inizialmente mi sono autoconvinto di avere un padre assente, un’idea assolutamente sbagliata perché mio padre non solo lavorava duramente, ma si informava di me attraverso mia madre, le chiedeva di me… L’ho capito tardi, quando ho iniziato ad avere i primi confronti con lui, a ribellarmi. Alle medie sono arrivato a dirgli “ti odio” e mi sono sentito una schifezza. Le cose sono cambiate a 19 anni, dopo il mio coming out. In quell’occasione ho riscoperto mio padre.
Come ha reagito tuo padre al coming out?
Lui mi ha guardato negli occhi e ha detto: “io lo sapevo”. Mi ha raccomandato di stare attento perché la gente avrebbe usato l’omosessualità contro di me, per ferirmi, soprattutto visto il lavoro che volevo fare. Abbiamo iniziato a parlare, ed è diventato anche abbastanza geloso: quando gli ho presentato il mio primo fidanzato lui lo controllava, gli telefonava, andava nel suo negozio per conoscerlo perché voleva capire chi fosse il fidanzato di suo figlio. Per un periodo, quando mi esibivo in una birreria di Napoli, mio padre era il mio bodyguard. Mi ha fatto capire che lui c’era sempre stato, ma in silenzio.
Hai raccontato che tua madre invece è svenuta…
Sì, quando finalmente riuscii a dire la verità e spiegai ai miei genitori che quell’Angelo che loro avevano conosciuto non era un amico ma il mio fidanzato, mia madre svenne. Quando si riprese cominciò con i tipici discorsi di una persona che non sa cosa sta affrontando: “Che cosa abbiamo sbagliato come genitori?”, “Ti portiamo dal dottore per guarirti”… Inizialmente io e lei ci siamo allontanati, e nel frattempo ho cambiato casa perché mi ero innamorato.
La bomba l’avevo sganciata, quindi mi rimanevano due strade: perdere il rapporto con mia madre, o rendere costruttiva la situazione. Ho scelto la seconda via. Mi sono chiesto perché mia mamma avesse reagito così: “Non mi vuole bene?”. No, semplicemente mia madre era disorientata e imbarazzata, non sapeva come gestire quella novità, non sapeva neppure cosa significasse essere gay e avere un figlio gay, come non lo sapevo neanche io all’epoca. Quindi mi sono rimboccato le maniche e l’ho aiutata a capire che io ero sempre lo stesso Mariano di prima, anzi ero più sereno perché non ero più costretto a nascondermi.
Come è avvenuto il vostro ricongiungimento?
È iniziato lentamente, con scuse banali. Le telefonavo per chiederle come si cucinasse pasta e patate, lei mi dettava la ricetta e poi chiudeva la chiamata. Oppure le portavo a casa le tende per la cucina che avevo comprato al mercato e le chiedevo di fami l’orlo, e intanto magari iniziavamo a chiacchierare. Inizialmente mi rispondeva a monosillabi, ma pian piano si è ammorbidita perché si è rassicurata.
I genitori che arrivano da un’altra epoca hanno ricevuto un’educazione diversa: è comprensibile. Sono disorientati di fronte a una rivelazione del genere, perché hanno delle aspettative per i figli: il posto fisso, il matrimonio, i figli… Dire a un genitore “sono gay” significa disattendere le sue aspettative e aggiungere delle paure, perché il genitore inizierà a temere che il figlio rimanga da solo, venga discriminato, diventi vittima di violenza. Ma quando ho dimostrato a mia madre che ero felice, che mi stavo costruendo una casa, una famiglia, lei si è tranquillizzata.
Certo, ci sono anche genitori che al coming out del figlio reagiscono in una maniera tanto violenta e assurda che non meritano di essere chiamati tali. Ma ce ne sono tanti altri che hanno solo bisogno di essere presi per mano e guidati. Magari inizialmente rispondono in maniera fredda alzando un muro. Ma chi davanti alle cose che non conosce non alza un muro?
Il rapporto con mia madre si è ristabilito, tanto che era lei a crearmi i primi costumi per Priscilla. Facevamo notte fonda in cucina sul tavolo, lei era il braccio, con la macchina da cucire, io la mente.
Ho imparato ad accogliere la sofferenza perché è parte dell’esistenza, utilizzandola a mio vantaggio. Dopo un primo momento di debolezza, che è naturale e ci deve essere, la sofferenza ha innescato in me un istinto di sopravvivenza. Devo sempre salvare il salvabile, e non potevo accettare di perdere mia madre, con cui avevo un rapporto così bello e confidenziale.
Il coming out, quindi, ha migliorato la tua vita?
Sì, ha rappresentato la mia svolta. Sono una persona di indole onesta e sincera e non riesco a mentire, ma fino a quel momento ero stato costretto a fingere con tutti, con me stesso e con le persone che amavo. La prima volta che mi sono innamorato di un uomo lo avevo raccontato al femminile: avevo rivelato di essermi innamorato “di Angela”, anche se in realtà era un lui e si chiamava Angelo. Ad un certo punto ero talmente stanco di dire menzogne che sono esploso e in una sola giornata ho confidato ad amici e familiari di essere gay. Avevo 19 anni, all’epoca non avevo neanche la patente, ho preso la metro e sono andato da due mie amiche, che sono state le prime a saperlo. Alla sera è stato il turno della mia famiglia.
Da bambino avresti mai immaginato di diventare la persona e il professionista che sei oggi?
Forse non avrei immaginato di diventare la persona che sono oggi, così forte e consapevole, perché all’epoca mi sentivo debole e solo. Oggi guardandomi alle spalle capisco che avrei potuto soccombere alle discriminazioni che ho subito da piccolo e che subisco tutt’oggi in quanto omosessuale, e invece, anche grazie alla mia famiglia, quelle che erano debolezze sono diventate i miei punti di forza.
Mamma e papà sono le mie fondamenta. Parte tutto dalla casa: se riusciamo ad avere una struttura solida in famiglia, quando ci affacciamo fuori e dobbiamo affrontare gli attacchi che la società ci rivolge siamo delle persone più strutturate. Mi ritengo una persona molto fortunata ad avere avuto dei genitori che mi hanno sostenuto sia nelle scelte personali che lavorative. Non è stato semplice, abbiamo dovuto cercare un punto d’incontro e capire quale fosse la strada giusta da percorrere insieme. Io non ho imposto niente a loro e loro non hanno imposto niente a me, è stato un volersi conoscere, riscoprire giorno per giorno e camminare accanto.
Sognavi di diventare una drag queen?
No. Alle elementari amavo recitare e danzare, e a scuola mi assegnavano la parte da protagonista nelle recite, però ricordo che quando mi chiedevano “cosa vuoi fare da grande?” rispondevo “il pediatra” perché adoravo i bambini. Forse, in realtà, dentro di me c’era già il desiderio di diventare un ballerino ma non avevo il coraggio di esternarlo perché agli occhi degli altri sarei sembrato "diverso". A volte mi chiudevo in cameretta, con le lenzuola del mio lettino mi creavo gli abiti, ballavo davanti allo specchio e cantavo a squarciagola, convinto che nessuno mi sentisse. Mia madre ogni tanto bussava e urlava: “qui stai stonando!”.
Come è nata Priscilla?
La vena artistica è esplosa alle superiori, quando iniziai a frequentare un corso di recitazione a scuola e a lavorare nella compagnia teatrale dell’insegnante. Per uno spettacolo di Gigi Savoia mi venne chiesto anche di ballare, allora mi iscrissi a una scuola di danza nel corso di primo livello. Ero l’unico 16enne in una classe di sole femmine che avevano tra gli 8 e i 10 anni, ma ero talmente felice di imparare a ballare che non mi pesava.
Però non avrei mai immaginato di diventare una drag queen, non mi sono neanche mai vestito da donna a Carnevale. Ma nel 2001 un programma tv cercava qualcuno che interpretasse una drag queen professionista, e pensai di mandare delle foto alla produzione. Le scattai in un locale in cui all’epoca lavoravo come spogliarellista, indossavo i costumi delle ballerina, con degli stivali numero 37 nonostante portassi un 42 di piedi. Loro impazzirono, e mi chiamarono. Entrai in studio vestita da Priscilla: fu la prima volta che la vidi, e me ne innamorai perdutamente. Da allora Priscilla non si è più fermata. Ho sentito di doverla vivere, e ho cominciato a lavorare nelle discoteche come drag, e non più come spogliarellista. Nel 2007 vinsi il titolo di “Drag Queen Italia”, dopodiché mi resi conto che Priscilla doveva essere qualcosa di più, un personaggio con un contenuto, con una preparazione artistica. Per fortuna ho incontrato registi che l’hanno voluta a teatro.
Chi è Priscilla?
Prima era un personaggio, ma per fortuna la mia considerazione di Priscilla è cambiata. Non è una maschera, non è qualcosa di finto o costruito, sono io, è un’altra parte di me. Rappresenta la mia parte femminile, con la quale ho combattuto. Non l’accettavo all’inizio, forse mi vergognavo perché ero una persona più giudicante un tempo, più chiusa e meno inclusiva di oggi, mentre Priscilla mi ha aperto il cuore e la mente.
Hai dichiarato di essere stato un “omosessuale omofobo”. Cosa significa?
Ero uno di quelli che riteneva che il Pride fosse una carnevalata. Pensavo: “ecco perché la società ci giudica e ci discrimina, perché scendiamo di strada vestiti in quel modo”. Nulla di più sbagliato. Ho iniziato a informarmi, a studiare la storia della comunità Queer, le lotte, e ho compreso che il Pride è una celebrazione dell’orgoglio di essere se stessi. Tutti hanno la libertà di scendere per strada come meglio credono, sui tacchi, in giacca e cravatta, con il sedere di fuori. Priscilla mi ha messo di fronte ai miei limiti.
Oggi ti senti ancora discriminato?
La discriminazione che provo oggi riguarda il mio lavoro. La comunità Lgbtq+ è fratturata perché al suo interno c’è discriminazione. Le drag vengono viste da tanti omosessuali come personaggi da spettacolo e intrattenimento, non come persone da frequentare o con cui costruire una relazione, perché vengono catalogate come figure “in una terra di mezzo”. Pensano che siccome abbiamo trucchi esagerati, parrucche cotonate, vestiti sgargianti, noi ci nascondiamo, e invece i vestiti e gli accessori sono solo strumenti per vivere la nostra parte femminile esasperata, mentre quello che portiamo sul palco è realtà, è qualcosa di intimo. Fare la drag è un atto rivoluzionario, di coraggio, anche faticoso, tra il make-up di due ore, il ballo, i tacchi… Per me è una vocazione, è il mio modo di essere libero, di combattere gli stereotipi, di essere attivo nella società, di fare politica, di dare uno schiaffo ai bigotti. Non ne potrei fare a meno.
Il resto della tua famiglia ti ha accettato?
Zii, cugini, nipoti impazziscono per me, sono fortunato. Famiglia e amici sono i valori più importanti e sono il motivo per cui ho scelto di restare in Italia, nonostante mi sia sempre stato un po’ stretto il panorama artistico italiano nel campo delle drag, almeno prima di condurre Drag Race Italia. Ho scelto di restare a casa perché ho bisogno di vivermi la mia famiglia e i miei amici.
Vuoi crearne un giorno una tua, di famiglia?
Assolutamente sì. Oggi sono single, anzi alla mia età, alla soglia dei 47 anni, si dice zitello. Voglio una famiglia, un marito, adottare dei figli. Sarebbe il mio sogno più grande.
Cosa significa per te diversità?
La diversità è l’essenza di ogni essere umano. Priscilla mi ha aiutato a capirlo, mi ha permesso di guardarmi allo specchio, mi ha insegnato ad apprezzare e valorizzare le diversità mie e degli altri. E in questo la scuola e la famiglia hanno un ruolo fondamentale: parte tutto da loro.
In che modo?
Se noi insegniamo ai piccoli a rispettare gli altri bambini di diverso colore della pelle, etnia, religione, con due mamme o due papà, la convivenza diventa più serena e costruttiva. La scuola ha una responsabilità enorme perché gli errori commessi tra i banchi si portano dietro tutta la vita, e se si trasmettono messaggi sbagliati sarà difficile correggerli nel tempo. Insisto nel sostenere per esempio che è giusto lasciare ai piccoli la libertà di scegliere i loro giochi e che non dovrebbero più esistere i giochi da maschio o da femmina. Se noi limitiamo la loro voglia di esprimersi non saranno completi, si sentiranno sempre inadeguati.
Ritengo fondamentale anche introdurre nelle scuole l'educazione affettiva e sessuale per accrescere nelle nuove generazioni una consapevolezza in fatto di sessualità e per combattere l'analfabetismo empatico ed emotivo.
Partecipo a un progetto “Omovies school” nelle scuole superiori, in cui vengono proiettati cortometraggi e si aprono dibattiti con gli studenti. Mi rendo conto di quanto sia fertile il terreno dei giovani di oggi, che sono attivi, informati, vivi, hanno voglia di imparare e di affermarsi, e mi caricano di energia positiva. Bisogna insistere con loro e lavorare con loro. Penso sia la strada giusta. È la mia speranza.