È accaduto di nuovo. È stato trovato vicino ad un cassonetto dei rifiuti nel centro di Taranto, all’interno di una borsa di tela verde, avvolto in una coperta con accanto un peluche, e il cordone ombelicale tagliato con delle forbici da cucina. La giovane mamma, che l’aveva partorito e abbandonato qualche ora prima, è stata rintracciata nella serata di sabato grazie alle telecamere di videosorveglianza posizionate all’angolo della strada. «Avevo paura di perdere il lavoro come badante» è stata la sua risposta durante l’interrogatorio. Secondo le prime indiscrezioni, la donna di origine georgiana, indagata per abbandono di minore e tentato omicidio, non era a conoscenza dell’esistenza della Culla della Vita e del servizio di parto in anonimato.
Una tragedia sventata, dentro cui galleggiano residui e avanzi di fallimento collettivo. Resta l’amarezza per la fragilità di un tessuto sociale piegato da indigenza, disperazione e povertà. Resta l’inadeguatezza dell’informazione sui servizi esistenti, che forse – per lingua, per status sociale, per ignoranza, per disinteresse – non arrivano a chiunque. Restano la solitudine, il disagio psicologico, la paura, sentimenti che vengono accostati alla maternità solo quando accade un episodio drammatico. Restano commenti negativi, insulti, giudizi non richiesti che arrivano dal “Tribunale dei social media” prima che dagli organi competenti, dita puntate contro, senza la volontà di comprendere, di chiudersi in un dignitoso silenzio o di riflettere su un fenomeno che nel ventunesimo secolo continua a essere frequente. Resta la consapevolezza che, al di là della grave colpa personale, il peso della gravidanza, della nascita e delle scelte genitoriali – virtuose o riprovevoli che siano – rimane suo, della madre, nonostante quel figlio sia il frutto di un rapporto a due, da cui, però, puntualmente derivano responsabilità a senso unico.
Resta anche qualcosa di positivo, in quel racconto di desolazione. Restano le buone condizioni di salute del neonato. Resta il sospiro di sollievo per una tragedia scampata. Restano l’amore e lo zelo di servizi sanitari e cittadini che si sono precipitati a prestare cure e dimostrare vicinanza al neonato. Grazie a loro quel neonato oggi ha un nome, un’identità, è “un qualcuno”: si chiama Lorenzo.
La difficoltà torna nelle storie di abbandoni materni. Maternità e difficoltà è un’accoppiata apparentemente contraddittoria, tranne per chi l’ha sperimentata sulla propria pelle o su quella di un caro. Un binomio inconcepibile fino a pochi anni addietro, quando l’unico modello di genitorialità accettato e trasmesso di generazione in generazione e sui canali d’informazione era quello idilliaco, costellato di gioie, sorrisi, carezze su guance paffute, attimi felici, anzi “i più felici della vita”. Oggi per fortuna sappiamo che non è propriamente così, e se ne parla di più. Di maternità e difficoltà psicologica. Di maternità e difficoltà economica. Di maternità e difficoltà di salute (della mamma e del neonato). Di maternità e difficoltà ad allattare, a ricostruirsi una routine dopo una gravidanza, a recuperare la vita affettiva e sessuale con il partner, ad accettare il corpo che cambia, ad amare e accudire il neonato come la società richiede, a conciliare famiglia e lavoro, a ricucire il rapporto con l’altro figlio, a ritagliarsi spazi di vita extra-genitoriale. Ma, evidentemente, non è ancora abbastanza.
Maternità e difficoltà è un’accoppiata perdente, che va normalizzata e rivendicata in quanto tale. Perché solo prendendo coscienza dell’esistenza di un problema, di una carenza, di una fragilità – di qualsiasi natura essa sia – si può lavorare, collettivamente, per la sua risoluzione. Una risoluzione che, innanzitutto, parte dall’informazione sulla salute fisica e mentale in gravidanza e dopo la nascita, sui servizi di assistenza a gestanti e mamme che si ritrovano sole e sono convinte di non avere via d’uscita, sugli aiuti a famiglie in difficoltà economica, sull’esistenza di un “lato oscuro” della maternità, che dall’esterno si fatica ad accettare e si tende a stigmatizzare.
Le vie d’uscita esistono. Va ricordato. Esistono oltre una cinquantina di Culle per la Vita, incubatrici sicure e protette, dislocate nel nostro Paese all’esterno di strutture ospedaliere e centri di aiuto e assistenza, in cui è possibile lasciare il neonato in sicurezza e nel rispetto del diritto all’anonimato della madre. Una è attiva anche a Taranto, posizionata sulla parete esterna dell’ospedale Santissima Annunziata, all’incrocio tra via Dante e via Crispi. Esiste il parto in anonimato, garantito dalla legge, che consente alle mamme di partorire in sicurezza, di non riconoscere il figlio e di affidarlo alle cure del personale sanitario, assicurando al piccolo l’assistenza e la tutela giuridica. Esiste il servizio sociale territoriale del Comune di residenza, che si attiva per intervenire in casi di difficoltà. A Milano ci sono alloggi di semiautonomia e residenze sociali temporanee per mamme sole e servizi domiciliari post parto.
Nessuno nasce con il manuale d’istruzioni per la vita in tasca. Men che meno con quello della genitorialità. Si nasce figli, non genitori. Ecco perché occorre normalizzare l’idea che chiedere aiuto non sia sinonimo di fallimento, che una mano tesa non equivalga a un sotterfugio, che la maternità non sia irrimediabilmente un’esperienza “rosa e fiori”. È un nostro diritto conoscere gli strumenti, i servizi e le reti d’aiuto, un nostro dovere (civico) ricordarli, anche a chi non li conosce o, magari, li ha ignorati.