L’Italia è un Paese in cui le politiche a sostegno della conciliazione fra vita professionale e familiare sono carenti, se non assenti, ma che, a fine carriera ti abbuona quattro mesi di lavoro se sei mamma e, qualche decennio prima, hai avuto un figlio.
Nel corso dell’incontro del 13 febbraio fra Governo e sindacati sulla previdenza di donne e giovani, ospitato al Ministero del Lavoro, si è tornati a discutere della Riforma Dini del 1995, e in particolare dell’opzione che, ancora oggi, permette a mamme lavoratrici dipendenti e autonome di richiedere, quando si è prossime all’uscita di vecchiaia, la pensione anticipata di quattro mesi per ogni figlio (fino a un massimo di 12 mesi, in caso di tre o più figli).
Una misura ad oggi fruibile esclusivamente dalle lavoratrici che sono nel contributivo pieno, e che il Governo Meloni vorrebbe estendere alle pensionande con sistema misto. Un’ipotesi annunciata dal sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, che, se diventasse realtà, costerebbe 700 milioni di euro alle tasche dello Stato.
Cosa dice la legge
La legge 335 del 1995 – comunemente nota come Riforma Dini dal nome dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri che ne fu il promotore – riformò il sistema pensionistico pubblico e privato in Italia. Tra le misure previste, sono presenti i quattro mesi di sconto pensionistico riservato alle mamme per ogni figlio (fino a un massimo di tre anni, per chi ha almeno tre figli).
La Gazzetta Ufficiale recita:
A prescindere dall'assenza o meno dal lavoro al momento del verificarsi dell'evento maternità, è riconosciuto alla lavoratrice un anticipo di età rispetto al requisito di accesso alla pensione di vecchiaia di cui al comma 19 pari a quattro mesi per ogni figlio e nel limite massimo di dodici mesi. In alternativa al detto anticipo la lavoratrice può optare per la determinazione del trattamento pensionistico con applicazione del moltiplicatore di cui all’allegata tabella A, relativo all'età di accesso al trattamento pensionistico, maggiorato di un anno in caso di uno o due figli, e maggiorato di due anni in caso di tre o più figli (Legge 335/1995).
Se la mamma lavoratrice ha avuto un figlio, ha diritto ad andare in pensione quattro mesi in anticipo, accedendo alla pensione di vecchiaia a 66 anni, anziché a 67.
Ad oggi, possono richiedere lo sconto pensionistico le lavoratrici che:
- Hanno una pensione liquidata con il sistema contributivo puro
- Hanno versato contributi dopo il 1995, non prima
Sono escluse le mamme lavoratrici con sistema previdenziale misto (quindi con una quota retributiva e una contributiva), che il neo-Governo vorrebbe includere nella misura.
Anticipare la pensione avvantaggia le mamme?
Ampliare la platea di fruitori di un bonus che premia le mamme a fine carriera, quando, generalmente, il neonato è ormai un adulto, con un’uscita anticipata è davvero un’iniziativa a supporto della maternità?
L’Italia è il Paese in cui a rassegnare le dimissioni volontarie sul posto di lavoro sono, nel 77,2% dei casi, mamme (contro il 27,8% dei papà), come precisa l'Ispettorato Nazionale del Lavoro.
È una nazione, la nostra, in cui – attenendoci ai dati Istat – per sei donne su dieci il part-time è una scelta obbligata che, se da un lato, agevola le madri nel barcamenarsi fra vita privata e professionale, dall’altro ne riduce la possibilità di carriera e di ricevere, alla fine del mese, uno stipendio più sostanzioso.
Il “buco nero” di servizi e politiche che favoriscano la conciliazione lavoro/famiglia nello Stivale ha indotto i genitori ad affidarsi a un welfare “fai da te”, quello familiare, fondato sul sostegno dei nonni. I nonni sono le prime figure di riferimento per i genitori lavoratori: nel 60,4% dei casi sono loro ad occuparsi dei piccoli, quando mamma e papà lavorano.
Tra l’altro, quella dell’anticipo della pensione per un periodo di tempo che varia in base al numero di figli avuti è una misura che, automaticamente, taglia fuori, oltre alle lavoratrici che non sono diventate madri, i papà, che sono genitori tanto quanto le mamme. L’ennesimo smacco alla figura paterna che accentua le disuguaglianze nel lavoro e in famiglia.
Come ha sentenziato il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL), allo stato attuale le quote rosa sono «le ultime ad entrare, le prime a uscire» dal mondo del lavoro. Un concetto preso in prestito dal frasario specialistico della logistica che si sposa perfettamente con la situazione lavorativa delle donne. Sulla dichiarazione dello CNEL incide la consapevolezza, oltre che del gap di genere nei posti di lavoro, della difficoltà delle femmine a conciliare la vita in famiglia (la cui gestione rimane in larga parte loro appannaggio) con quella dietro a una scrivania.
Una condizione, quella femminile, già svantaggiata in partenza, che è peggiorata ulteriormente con la pandemia da Covid-19, tanto che – come riporta Save The Children nell'ultimo report sulla maternità – è stato coniato il termine «SheCession» (che aggiunge a “cession” il pronome “she”) per descrivere, con un unico vocabolo, la recessione femminile di massa all’indomani dell’emergenza sanitaria.
Hanno ancora valore quattro (o più) mesi di bonus concessi come ricompensa per la maternità a un’età in cui la mamma forse è già nonna?
La letteratura – che da anni studia il fenomeno del divario di genere nella vita professionale e domestica – parla di «motherhood penalty» e di «child penalty gap» in relazione alle difficoltà e agli svantaggi riscontrati dalle mamme sul piano occupazionale e retributivo.
È proprio sullo svantaggio derivante dalla maternità che le istituzioni sono chiamate a intervenire per trovare una soluzione, affinché le mamme non siano più chiamate «equilibriste», per la loro abilità a rimanere in equilibrio (o in bilico) fra lavoro e famiglia, ma acrobate, libere di muoversi con leggerezza ed elasticità fra la carriera e l’amore per la famiglia.