Quando parliamo ai bambini più piccoli non possiamo farne a meno: basta incrociare lo sguardo con un bebè e siamo subito lì a fare vocine stupide e strane nella speranza di provocare una reazione divertita.
È il cosiddetto baby talking, il particolare linguaggio fatto di toni cantilenanti e parole onomatopeiche con cui i genitori (ma anche gli adulti in generale) si rivolgono ai bimbi durante i primi anni di vita.
Questa strana lingua – chiamata anche motherese in quanto tipica delle madri che parlano ai figli durante l'allattamento – non è però soltanto un modo per strappare un sorriso o una risata ai piccoli, ma un'importante canale comunicativo che sollecita lo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino.
Perché facciamo le vocine?
Nessuno"impara" a parlare in questo modo con i bambini, eppure viene naturale cercare una specie di dialogo con i più piccoli utilizzando nomignoli, suoni dolci e tonalità alterate.
Le vocette e le parole infantili rientrano infatti in un comportamento istintivo da parte degli adulti, appreso per imitazione (lo vediamo fare dagli altri adulti nel corso della crescita) e molto probabilmente modellato nel corso della nostra evoluzione per venire incontro alla necessità di "formare" le abilità comunicative degli infanti.
Cosa dicono gli studi
L'elemento più importante che è emerso negli ultimi decenni di ricerche sul baby talking e che avvalora la tesi di una risposta evoluzionistica ai bisogni dei neonati e dei bimbi piccoli riguarda l'universalità di questo comportamento: tutti gli umani, indipendentemente dalla propria lingua e cultura di appartenenza sembrano infatti ricorrere a questa varietà linguistica per comunicare con i bebè.
A rafforzare tale ipotesi è stato uno studio pubblicato nel 2022 su Nature e condotto da un team internazionale di ricerca che ha coinvolto 410 adulti provenienti da 21 società diverse sparse nel mondo. Ai partecipanti era stato chiesto prima d'instaurare un dialogo con un bambino che veniva definito "imbronciato", poi di conversare con un altro adulto e infine di cantare due canzoni, una rivolta ad un bambino e una rivolta ad un adulto.
La comparazione delle oltre 1600 registrazioni ottenute hanno dunque mostrato che quando ci si rivolgeva ai bambini molte delle caratteristiche prese in considerazione (come le alterazioni del tono di voce, una maggiore ricerca di musicalità nel parlato o la scansione delle parole) apparivano del tutto condivise.
Un aspetto che era già emerso nel 2017, quando su Current Biology compariva un paper statunitense nel quale veniva evidenziato come la modulazione del timbro di voce delle mamme intente a confortare i propri bebè apparisse pressoché identico per ogni lingua, cultura o strato sociale di provenienza.
Il baby talk aiuta i bambini a imparare a parlare
Ma come mai allora tutti noi adulti sembriamo "programmati" a parlare con versetti e parole cantilenanti quando abbiamo a che fare con bambini piccoli? Semplicemente per aiutarli a vivere le prime esperienze comunicative all'interno di un registro espressivo in grado di stimolare le aree cerebrali deputate alla comunicazione, al linguaggio e all'apprendimento.
Il baby talking infatti non solo pone le basi per le prime abilità comunicative del bimbo, ma favorisce anche:
- lo sviluppo emotivo: il dialogo, benché unidirezionale, consolida il rapporto tra il piccolo e l'adulto, innescando una serie di reazioni come gioia, divertimento e interesse
- l'associazione di suoni al loro significato
- lo sviluppo cognitivo e l'attivazione del flusso cerebrale
Insomma, con il baby talking si abitua il bebè al fatto che l'essere umano è nato per comunicare con la parola e attraverso quei suoni bislacchi e decisamente infantili vengono poste le fondamenta per quello che più avanti diventerà un linguaggio verbale complesso e articolato.