Nel mondo vivono oltre 2 miliardi di bambini e adolescenti, 7 milioni dei quali sono ospitati in case famiglia e istituti di accoglienza. Sono in esponenziale crescita a livello internazionale i dati sul numero dei più piccoli rinchiusi negli orfanotrofi e nelle strutture predisposte all’accoglienza di minori in difficoltà, abbandonati o senza genitori, anche a causa delle guerre. Un tema delicato e urgente, che è stato toccato nel corso della Conferenza internazionale su «Gli interventi a sostegno della genitorialità basati sull’attaccamento» organizzata nei giorni scorsi all’Università di Pavia. Al centro dell’incontro, le conseguenze e gli effetti della permanenza in case famiglia, dell’affido e dell’adozione sullo sviluppo psicologico dei più piccoli e, soprattutto, l’importanza della creazione di un legame di attaccamento tra il genitore (o caregiver) e il minore in difficoltà.
«La struttura della famiglia, indipendentemente dal fatto che sia biologica, adottiva, affidataria, è in assoluto quella che può recuperare meglio e più velocemente i danni, i ritardi e i disagi socio-emotivi dei bambini. Al contrario, orfanatrofi e istituti di accoglienza sono luoghi dove aumentano le problematicità dei minori» ha spiegato Lavinia Barone Responsabile del Laboratorio per l’Attaccamento e il sostegno della Genitorialità – LAG dell’Università di Pavia, come riporta il Corriere della Sera.
Secondo uno studio condotto nel 2020 su oltre 100mila bambini provenienti da 60 Paesi diversi, la figura del caregiver è estremamente rilevante nell’aiuto di un piccolo con disturbi e disagi dello sviluppo e psicologici. Se non è seguito da un caregiver, il minore rischia di non risolvere i ritardi evolutivi e i disagi sviluppati nei primi anni di vita, che riguardano lo sviluppo della circonferenza cranica, il peso, l’altezza, ma anche lo sviluppo intellettivo e socio-emotivo. Ecco perché è essenziale investire sugli interventi a sostegno dei genitori di minori in difficoltà o ospitati in istituti di accoglienza, dei genitori affidatari e dei genitori adottivi.
«È scientificamente provato che lavorando sui caregiver primari si riescono a ridurre i rischi legati allo sviluppo dei bambini» ha continuato la dott.ssa Barone ha continuato la dott.ssa Barone, prima di aggiungere: «Le ultime evidenze scientifiche ci dicono che è il caregiver che si occupa del minore che fa la differenza nell’aiutarlo, ma dev’essere supportato per rendere al meglio nelle proprie capacità. Il legame biologico, invece, è risultato relativamente importante».
Gli interventi, quindi, agiscono direttamente sui genitori (o caregiver), non sui piccoli. L’obiettivo è di rendere più positiva la relazione degli adulti con i figli in crisi e, di conseguenza, risolvere o, almeno, migliorare disagi e disturbi dei minori. Nel caso di bimbi fino ai 10 anni, vengono effettuati interventi a domicilio, mentre per gli adolescenti si prediligono incontri di gruppo, durante i quali attraverso attività e giochi di ruolo i genitori dei teenager si mettono alla prova in alcune situazioni tipiche. Negli interventi domiciliari, invece, gli specialisti raggiungono la casa del paziente e registrano dei video, filmando le interazioni di vita quotidiana genitore-figlio tra le mura domestiche, mostrando poi all’adulto quali comportamenti che adotta con il figlio sono corretti e quali da correggere.
Di fatto sono interventi che favoriscono l’attaccamento, una relazione emotivamente significativa. «Per i bambini adottati che hanno conosciuto percorsi di vita con separazioni e perdite, o addirittura traumi, il coinvolgimento dei genitori adottivi attraverso questi interventi è una “terapia naturale di recupero” con risultati positivi e di grande aiuto per tutti» conclude Barone. I più piccoli, infatti, anche da un punto di vista evoluzionistico hanno un’innata esigenza di instaurare un legame d’attaccamento con un adulto, perché una simile relazione accresce la possibilità di sopravvivenza.