"Una mamma per amica", chi di noi non ricorda questa serie televisiva? Raccontava le vicende, le gioie e i problemi di una madre single e sua figlia. La serie parlava di un rapporto sì intimo, ma soprattutto divertente, complice, a tratti paritario, in cui la figlia, alle volte, assumeva il ruolo saggio di chi consiglia e guida la coppia, tanto da interpretare un modello invidiabile di maturità ed equilibrio. Insomma, la figlia che molti vorrebbero. Il tutto al punto da rinforzare un'idea: l’idea che coltivare un rapporto simmetrico aiuti la complicità genitore/figlio.
Nell’immaginario collettivo questa modalità sarebbe l'ideale per la gestione dei conflitti inevitabili che avvengono tra le mura domestiche, perché li renderebbe più accessibili, semplici, paritari, appunto. Come se “litigare” con un altro adulto e “litigare” con un figlio potesse essere simile, se non la stessa cosa.
C’è una distorsione di fondo che non aiuta a ritrovare un equilibrio asimmetrico (che ricordiamo essere fondamentale nel rapporto genitore/figlio): per evitare di essere escluso dalla vita di mio figlio devo essergli amico, affinché mi racconti quello che fa, quello che prova e pensa. Per questo serve annullare una conflittualità che rischierebbe di renderci più distanti.
La necessità di informazioni anche nel rapporto genitoriale
Viviamo un’epoca in cui sentiamo la necessità di informazioni e questa si è estesa al rapporto genitoriale, alimentando la credenza che più cose sappiamo di nostro figlio, più lo possiamo guidare consigliandolo. Essere a conoscenza dei suoi flirt, dell’ultimo post pubblicato, del gossip che corre tra i banchi di scuola, ci fa sentire più sicuri del nostro ruolo e ci rassicura del fatto che “Non ci nasconde nulla”.
Non solo, per essere anche più accessibili e meno distanti, dato che ci divide un gap generazionale, ci ritroviamo inesorabilmente ad assomigliargli, a emulare i suoi i comportamenti, anziché il contrario, appropriandoci di ciò che è suo. E allora ci iscriviamo ai social network, ci vestiamo, ci atteggiamo e parliamo in modo giovanile, chiedendo anche la sua approvazione e infastidendoci quando ci sentiamo squalificare perché “Troppo vecchi”. Insomma, facciamo davvero di tutto per essere presenti. Non sempre intenzionalmente, più spesso inconsapevolmente.
Ma è davvero questo tentativo di assomigliare a lui che ci porterà ad avere un rapporto “speciale” con nostro figlio? Inseguiamo un desiderio, più che lodevole, di essere parte della sua vita, anziché alieni che vivono con lui.
La verità è che non abbiamo bisogno di essere amici dei nostri figli. Se nostro figlio ci vede come un alieno non è sempre necessariamente sbagliato. Su cosa possiamo dunque basare il rapporto genitoriale con i nostri figli? Sulla fiducia e sull'autorità.
Fiducia: lasciamo i nostri figli liberi di sbagliare
Ora vorrei raccontarvi un aneddoto. Un giorno sedevo al tavolo di un bar che accoglieva clientela di tutte le età. Nel prendere un caffè mi sono accorto di una nonna insieme a una bambina piccola intenta a provare i suoi primi passi da sola. La nonna le stava dietro e ogni tanto le toccava la mano, forse a farle capire che era ancora lì, che c’era. Allo stesso tempo le permetteva di provarci da sola, anche quando la piccola cadeva a terra, lasciando che si rialzasse in autonomia.
Su questo si basa un rapporto genitore-figlio sano e costruttivo. Ci siamo per i nostri figli anche se non ci mettiamo al loro fianco, se non cerchiamo di essere uguali a loro. Loro sanno che siamo lì, pronti a toccare la loro mano e a stringerla in caso di difficoltà, ma anche per lasciarli liberi, di essere loro, diversi da noi e di cadere e sbagliare in autonomia.
Responsabilità: il dovere di insegnare l'autonomia
La responsabilità non può connotare in alcun modo un rapporto amicale, è piuttosto il fondamento di un rapporto asimmetrico: genitore-figlio, così come lo è il rapporto medico-paziente, insegnante-alunno.
In questo caso voglio partire da una sollecitazione che arriva dal mondo cinematografico. Il film si chiama “Barriere”, regia di Denzel Washington del 2016. La scena che riporterò è un dialogo tra un genitore affaticato e suo figlio:
G – Mangi tutti i giorni? – F – Sissignore. – G -Hai un tetto sopra la testa? – F -Sissignore.- G – Hai dei vestiti addosso? – F -Sissignore. – G – Perché credi che sia così? – F – Grazie a Te.- G – Diavolo, lo so che è grazie a me, ma perché credi che sia così? – F – Perché io ti piaccio? – G – Perché mi piaci? Io esco da qui tutte le mattine, mi rompo la schiena, sopporto quei buffoni bianchi ogni giorno… Perché tu mi piaci? Sei il più grosso sciocco che abbia mai visto. É un mio dovere, è una mia responsabilità. Devo prendermi cura della mia famiglia. Tu vivi in casa mia, tu mangi il mio cibo, metti il tuo didietro sul mio letto perché sei mio figlio non perché mi piaci. Perché è un mio dovere prendermi cura di te. Io ho delle responsabilità. Ora vediamo di chiarire questa cosa adesso, una volta per tutte… Tu non mi devi piacere. – (Barriere, D. Washington 2016)
Al di sopra del linguaggio forte e crudo e di una società che non è più evidentemente la nostra, possiamo trarne una evocazione a noi utile: la responsabilità genitoriale è un dovere, un bene superiore, una bussola che orienta tutto il nostro agire educativo. La sua unica direzione però è l’autonomia dei nostri bimbi, non dover piacere loro a tutti i costi.