In Italia le donne incinte sono tutelate dalla legge e non possono essere licenziate se non per «giusta causa». Il problema si presenta quando questa giusta causa viene interpretata in modo molto libero dai datori di lavori, i quali talvolta si appellano a questa unica "via di fuga" per lasciare a casa le lavoratrici che scoprono di aspettare un bambino.
Emblematico in questo frangente è il caso della ventenne di Nuoro che nel febbraio del 2024 ha scoperto di essere stata licenziata dalla propria azienda dopo che due colleghi l'avevano costretta a fare un test di gravidanza nel bagno dell'ufficio.
La vicenda ha provocato le reazioni di media e opinione pubblica, accendendo nuovamente i riflettori su una situazione in linea teorica dovrebbe essere ampiamente codificata dalle leggi vigenti ma che troppo spesso riesce ad essere aggirata.
Maternità e lavoro: cosa dice la legge
In Italia, la legislazione tutela fortemente i diritti delle lavoratrici incinte e delle neo-mamme, vietando in modo esplicito il licenziamento per motivi legati alla gravidanza.
In base al Decreto Legislativo n. 151/2001 (Testo Unico sulla Maternità e sulla Paternità), durante il periodo di gravidanza fino al termine del periodo di maternità post-partum (solitamente 5 mesi dopo il parto), le donne godono di una particolare protezione contro il licenziamento.
I datori di lavoro non possono licenziare le lavoratrici per motivo di gravidanza o durante il congedo di maternità, tranne nei casi di chiusura dell'azienda o in caso di licenziamento per giusta causa. Quest'ultimo scenario non deve quindi essere legato alla condizione di gravidanza o maternità della lavoratrice, ma può presentarsi solamente di fronte a comportamenti oggettivamente gravi della dipendente nei confronti dell'azienda o dei colleghi (furti, violenza, gravi inadempienze, comprovato assenteismo etc…).
Anche in questi casi, il licenziamento deve essere autorizzato dall'Ispettorato del Lavoro.
Inoltre, per i periodi immediatamente precedenti e successivi al congedo di maternità, esistono norme specifiche che limitano la possibilità di licenziamento. Ad esempio, una donna non può essere licenziata durante il periodo di prova se l'azienda viene a conoscenza della sua gravidanza.
Se una lavoratrice viene licenziata in violazione di queste disposizioni, il licenziamento può essere considerato nullo e la lavoratrice può fare ricorso per essere reintegrata nel suo posto di lavoro e per ricevere il pagamento dei salari perduti.
Anche il demansionamento non giustificato, ossia l'assegnazione d'incarichi e responsabilità inferiori alle qualifiche sottoscritto alla firma del contratto di lavoro, rappresenta una pratica discriminatoria e che non può essere attuata.
Va notato però che queste protezioni si applicano alle sole lavoratrici subordinate. Le lavoratrici autonome o freelance potrebbero non godere dello stesso livello di protezione legale in caso di gravidanza.
Cosa può fare una donna licenziata in maternità?
Se la lavoratrice ritiene di aver subito un licenziamento ingiusto e causato dalla propria condizione di donna incinte, ha facoltà di presentare un ricorso formale che può prevedere alcuni passaggi:
- Impugnazione del licenziamento: la lavoratrice ha 60 giorni di tempo dalla ricezione della comunicazione di licenziamento per impugnarlo, inviando una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno al datore di lavoro, in cui esprime la volontà di contestare il licenziamento e chiede il reintegro nel posto di lavoro e il pagamento dei salari arretrati.
- Azioni legali: se il tentativo di risoluzione diretta con il datore di lavoro non sortisce effetto, la lavoratrice può avviare un'azione legale presso il Tribunale del Lavoro competente. È consigliabile rivolgersi a un avvocato specializzato in diritto del lavoro per ricevere assistenza nella preparazione e nella gestione della causa.
- Ricorso all'Ispettorato del Lavoro: parallelamente o in alternativa alle azioni legali, la lavoratrice può presentare un reclamo all'Ispettorato del Lavoro, che ha il compito di vigilare sull'applicazione della normativa a tutela dei lavoratori. L'Ispettorato può effettuare controlli e imporre al datore di lavoro la reintegrazione della lavoratrice se il licenziamento viene riconosciuto come illegittimo.
In caso di accertamento dell'illegittimità del licenziamento, il datore di lavoro può essere obbligato a reintegrare la lavoratrice nel suo posto di lavoro e a corrisponderle una indennità pari alle retribuzioni che avrebbe percepito dal momento del licenziamento fino al reintegro, oltre al risarcimento del danno.