Simone aveva 10 anni quando gli oncologi hanno comunicato a lui e alla sua famiglia la diagnosi di un sarcoma di Ewing al primo stadio. Ricevere una notizia del genere nell’estate tra la quinta elementare e la prima media significa perdere quel filtro candido, spensierato e pulito con cui da bambino guardi la vita, ed essere catapultato sul pianeta degli adulti, tra Ospedali, sale operatorie, facce grigie, perdita dei compagni di viaggio e un continuo andirivieni di medici e infermieri. Significa rinunciare alle lezioni a scuola, al compleanno degli amici, alle vacanze al mare e alla Fiera dei Fumetti. «Sono stato costretto a vivere l’infanzia come un adulto, dovevo essere io a rispondere “no, non posso venire” anche se a chiedermelo erano i miei compagni di classe» ha raccontato a Wamily Simone, che oggi ha 19 anni e sta studiando per affrontare il test di Medicina, quella scienza formidabile che otto anni fa gli ha salvato la vita. Al suo fianco c’è mamma Ilaria, che ha stretto la mano del figlio senza mai lasciarla, da quell’incidente sui gonfiabili che portò a galla la malattia alla prima chemioterapia, dall’amputazione parziale del piede di Simone alle logoranti giornate di ricovero all’Ospedale Bambino Gesù di Roma, fino all’indimenticabile giorno di guarigione. «Il giorno in cui gli hanno finalmente rimosso il catetere venoso centrale dal petto con cui gli venivano infusi i farmaci chemioterapici, è accaduto qualcosa di simbolico – ricorda Ilaria –. Non appena siamo usciti dall’Ospedale è stato sparato il cannone del Gianicolo, come accade ogni giorno a mezzogiorno. Noi ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere, era un segnale: avevamo ufficialmente finito le cure».
La storia di Simone Giavalisco, di mamma Ilaria Gambardella e della loro famiglia inizia nel 2014 a Roma. Simone, che al tempo aveva 10 anni, era a una festa di compleanno quando cadde sui gonfiabili e iniziò ad avvertire un dolore al piede sinistro. Dopo diverse visite, un ortopedico si accorse di una macchiolina al piede e consigliò una biopsia. Il risultato fu una doccia fredda: Simone aveva un sarcoma di Ewing al primo stadio, un tumore aggressivo delle ossa con una percentuale alta di insuccesso. Dal quel giorno, iniziò il calvario: nove cicli di chemio, un ricovero al mese di sette giorni all’Ospedale Bambino Gesù di Roma, l’intervento chirurgico con l’amputazione parziale del piede, la frequenza a singhiozzo della prima media appena iniziata.
«Ricordo poco di quel periodo – racconta Simone -, negli anni il mio cervello ha cercato di eliminare i ricordi brutti. Quando ci hanno comunicato la diagnosi non riuscivo a realizzare la gravità della situazione, ma vedevo la mia famiglia e le persone intorno a me preoccupatissime».
Il tumore infantile, quando piomba su una famiglia, ha un impatto travolgente. Fagocita le routine di figli e genitori con una forza intrinseca che è aggregante o disaggregante, e le restituisce cambiate. La malattia di un figlio o unisce o separa, o distrugge o crea. Senza dubbio, non lascia mai le cose come sono prima del suo arrivo. «A volte la famiglia si compatta e fa fronte comune al tumore nell’affrontarlo – racconta mamma Ilaria –, in altri casi acuisce problemi familiari magari preesistenti, non tanto nel momento della malattia durante il quale si pensa solo alla guarigione del figlio, ma alla fine. Tante volte la famiglia si spacca». «Noi siamo stati fortunati – continua –, abbiamo gestito il problema come una famiglia allargata. Mio marito ha continuato a lavorare, mentre io ho seguito Simone in Ospedale. I miei genitori nonostante vivessero in un’altra città si sono uniti a noi per fronteggiare la situazione, per essere tutti famiglia».
Durante quei mesi complicati Simone non è mai stato abbandonato dalla sua migliore amica, dai neocompagni della scuola media e dagli insegnanti, che si sono prodigati per lui, andando a casa sua per Natale, Santo Stefano e di domenica consentendogli di recuperare qualche ora di lezione. «I miei amici non mi hanno mai fatto sentire diverso, anche se lo ero, perché non avevo i capelli e non andavo a scuola» spiega Simone. «La partecipazione, la vicinanza e la resilienza dei coetanei e amici intimi di Simone è stata commovente vista dall’esterno – aggiunge mamma Ilaria -. Avevano 9-10 anni ma hanno dimostrato una maturità straordinaria nel non isolare Simone e nel non spaventarsi davanti al capello che cadeva o al piede parzialmente amputato, quando era in sedia a rotelle lo venivano a prendere e lo portavano in classe. A volte i bambini sono in grado di fronteggiare certe situazioni meglio degli adulti».
Simone, a sua volta, ha accolto la notizia con maturità e spirito di sacrificio. «Io sono sempre stata sincera con lui, sia sul tumore che sui rischi – commenta Ilaria –, anche perché è necessaria una grande collaborazione da parte del bimbo, che deve capire l’importanza e la necessità di fare quello che gli viene chiesto. Gli abbiamo spiegato che aveva una malattia seria e che ne andava della sua esistenza e del suo futuro. È impossibile tenere nascosta una cosa del genere: i bambini hanno le antenne rizzate, leggono tra le righe e capiscono se il genitore è diverso e preoccupato».
I giorni in Ospedale trascorrevano lenti. Ilaria si assentava solo qualche ora, il tempo di una doccia veloce a casa e il viaggio in macchina di ritorno al nosocomio nel traffico di Roma. Non voleva perdersi gli istanti accanto al figlio, le coccole, le crisi di nausea, le parole del medico. «Mentre sei in ospedale inevitabilmente crei legami forti con le famiglie degli altri bambini perché ci si trova insieme a vivere una situazione estrema – racconta Ilaria –. Ma quando ti rendi conto che tu la stai superando e qualcun altro no, è doloroso, perché è come se fossimo ormai tutti una grande famiglia».
Dopo l’amputazione parziale del piede, è arrivato il risultato dell’esame istologico: la terapia stava funzionando, e Simone era nella direzione giusta per la guarigione. Una notizia che ha alleggerito il protocollo di cura nel post operatorio. «A darmi la forza è stata la necessità di avere Simone con me per il resto della mia vita. Non avrei mai permesso a me stessa di assistere al funerale di mio figlio». Simone concorda con la sua mamma, e ammette: «Volevo uscirne e vedere mia madre felice e spensierata… Mi sentivo addosso la responsabilità di restituire la felicità alla mia famiglia».
Erano i primi giorni di aprile 2016 quando Simone terminò ufficialmente le terapie. Oggi Simone conduce una vita normale. Adora l’arrampicata, si sta preparando per il test d’ingresso alla Facoltà di Medicina e Chirurgia e ha appena conseguito la patente di guida. Per due anni ancora sarà in follow-up, dopodiché, a dieci anni dal termine delle cure, sarà decretata ufficialmente la sua guarigione. Ma quel che lui e la sua famiglia hanno vissuto, non si cancella.
«È una cicatrice che ti porti dentro per sempre – spiega Ilaria –. Quando metti al mondo un figlio non pensi che possa ammalarsi gravemente e soprattutto non pensi di poterlo perdere. Percepire che tuo figlio rischia di morire, vedere una sua mutilazione… Sono ferite che restano sanguinanti. I genitori sperano che i figli vivano un’infanzia serena e spensierata, e l’idea che soffrano e vivano un trauma ti distrugge. Certo, il tempo è un grande guaritore, e pian piano il dolore si assopisce, ma rimane dentro un’ombra di paura, di dispiacere. Anche perché noi siamo stati estremamente fortunati e siamo grati per aver ricevuto le cure mediche e il supporto adeguati, non tutti i nostri compagni di viaggio purtroppo sono riusciti a uscirne, ne abbiamo lasciati parecchi per strada».
La malattia però ha lasciato anche qualcosa di positivo. «Il dono che ci è rimasto è un legame emotivo ed affettivo che va al di là del normale rapporto genitore-figlio – continua Ilaria –. Un’esperienza del genere ti lega a doppia mandata: ci capiamo con uno sguardo, siamo complici, due migliori amici».
Simone non ha dubbi: il consiglio più valido per chi oggi si trova a combattere contro una malattia, è non mollare, stringere i denti e tenere duro, appoggiandosi agli unici appigli validi: la famiglia e i medici. «Bisogna affidarsi ai medici, avere fiducia in loro, nella medicina, nella scienza, nella ricerca, perché le cure sono valide – aggiunge Ilaria –. A chi sta vivendo la malattia, consiglio di non avere paura e non cercare scorciatoie, perché in questo percorso non ce ne sono».
Quella di Simone è una storia di speranza che si è conclusa a lieto fine, tuttavia sono centinaia i piccoli malati di cancro che continuano ad occupare i letti degli Ospedali pediatrici in Italia. Ad oggi si trovano ad affrontare un tumore circa 1.400 bambini e ragazzi di meno di 14 anni, mentre tra gli adolescenti dai 15 ai 19 anni i casi calcolati sono circa 900. Grazie al lavoro di medici e ricercatori, la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi supera l’80% per le leucemie e si aggira attorno al 70% per i tumori solidi, come riporta l’Airc, Fondazione di Ricerca sul Cancro che sta sostenendo 72 progetti di ricerca e borse di studio sui tumori infantili con l’obiettivo di arrivare a curare i pazienti più giovani con lo sviluppo di terapie specifiche sempre più precise, efficaci e meno tossiche.
«A chi si trova ad affrontare una malattia, suggerisco di rimanere coesi come famiglia – continua Ilaria –, perché è importante che tutta la famiglia partecipi al percorso di guarigione. Parlatene, sviscerate le vostre perplessità, supportatevi e proteggetevi l’un l’altro, anche se ci sono figli giovani o anche se ad ammalarsi è il genitore. Oggi gli oncologi di Simone sono amici con cui andiamo a mangiare la pizza, loro ci hanno preso per mano e ci hanno condotto fuori dal buio».