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20 Novembre 2023
18:03

Violenza di genere, lo psicologo Lancini: “Tra gli adolescenti è in atto una crisi identitaria. Non servono gli slogan: i ragazzi vanno ascoltati”

Il tragico caso di Giulia Cecchettin ha aperto un dibattito sull'urgenza di educare i più giovani alla non violenza di genere. Wamily ne ha parlato con lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini: «I modelli educativi non derivano solo dalla famiglia o dalla scuola, ma i genitori di oggi sono così emotivamente fragili che non riescono a creare spazi di confronto con i figli».

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Violenza di genere, lo psicologo Lancini: “Tra gli adolescenti è in atto una crisi identitaria. Non servono gli slogan: i ragazzi vanno ascoltati”
Intervista a Prof. Matteo Lancini
Psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione Minotauro di Milano
lezione di educazione civica

Rabbia, senso d’impotenza, spaesamento. I genitori si domandano insistentemente se il loro operato fino ad oggi sia stato virtuoso, o se rischiano di svegliarsi domattina scoprendo che quel figlio o quella figlia che dorme nella stanza di fronte alla loro non è come l’avevano immaginato, se non addirittura un estraneo. I figli, che convivono sotto lo stesso tetto, si chiedono se qualcuno nella loro cerchia di conoscenze, amicizie, affetti sia potenzialmente in grado di arrivare a gesti estremi. I membri della famiglia si arrovellano alla ricerca di risposte, avanti e indietro per casa, e, immersi nel pozzo dei pensieri più intimi e spaventosi, si dimenticano di una cosa: parlare. C’è chi accusa la scuola, chi le mamme e i papà, chi il sistema. Nel mezzo, rimane una «crisi identitaria senza precedenti», che richiede un intervento urgente per incidere profondamente nelle fasce d’età più giovani. A sottolinearlo è il dott. Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della  fondazione Minotauro di Milano, per il quale la soluzione più efficace è introdurre un’«educazione seria, affettiva, sessuale ed identitaria», consapevole della complessità della società in cui viviamo. Una società in cui gli adolescenti sono costretti a misurarsi con modelli di identificazione diversi e disorientanti e in cui gli adulti non dimostrano un livello di alfabetizzazione emotiva adeguato. Il caso del 22enne Filippo Turetta, accusato dell’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, ha aperto dibattiti e domande sull’impellenza di educare i più giovani alla non violenza di genere. Wamily ha chiesto un parere al dott. Lancini, autore del libro “Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta”.

Alla luce di quanto accaduto, è chiaro che bisogna insistere con l'educazione alla non violenza di genere. Come la si insegna alle fasce d’età più giovani?

Non è un problema legato solo alla parità di genere. Continuiamo a pensare che queste vicende siano riconducibili esclusivamente al patriarcato e al possesso, mentre credo che oggi il tema della parità di genere debba essere affrontato all’interno di questioni più ampie. Stiamo assistendo a una complessità nella costruzione dell’identità maschile e femminile legata a delle trasformazioni che stanno cambiando l’idea di coppia, famiglia, società. A questo, vanno aggiunti il bombardamento massmediatico e una sottocultura televisiva.

Il sesso oggi ha un ruolo secondario nelle nuove generazioni: ce lo dicono anche i dati. Quel che conta allo stato attuale è vivere nella mente dell’altro, compenetrare la mente dell’altro, non il corpo. In questo quadro complesso occorre comprendere cosa accade nella mente dei ragazzi nel momento in cui finisce un rapporto di coppia. Oggi la relazione non finisce quando ci si lascia, ma la fine della relazione costituisce una parte della relazione di coppia. E in questo processo – per caratteristiche di genere, e a volte anche di corpo – i maschi tendono ad avere più difficoltà a mentalizzare e tendono ad agire più violentemente, diventando distruttivi sul corpo dell’altro.

Mi auguro che non si spendano milioni di euro per proporre campagne d’informazione scontate – del tipo “se guidi in stato d’ebrezza perdi la capacità di reazione”, “la droga è dannosa alla salute”, “bisogna rispettare la propria compagna” – che sono utili solo agli adulti per potersi fregiare di aver fatto qualcosa (che in realtà fanno per sé, non per i giovani). L’unica soluzione valida è un’educazione seria, affettiva, sessuale ed identitaria, integrata con la complessità della società in cui viviamo.

La questione è quindi legata a doppio filo alla fragilità delle nuove generazioni?

Certo, a quadruplo filo. È legato a una fragilità che in questo momento trova forme di disperazione diversi: dai suicidi in aumento, ai suicidi mascherati da incidenti stradali, dal disturbo della condotta alimentare, ai tagli, dal ritiro sociale, alla violenza in strada, fino alla violenza verso l’altro. In questo caso si tratta di femminicidio.

Mercoledì il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, presenterà dei «percorsi di educazione alle relazioni» destinati agli studenti delle scuole superiori. Bastano o servono interventi più concreti?

Dipende da chi li gestisce e da come saranno sviluppati. Mi auguro però che siano iniziative concepite e realizzate per i ragazzi, e non solo progetti ideati per rassicurare l’opinione pubblica, cioè gli adulti. Lavorare con gli adolescenti significa aiutarli ad elaborare gli stati affettivi, quindi farli parlare.

Non ci rendiamo conto che la violenza, la sopraffazione dell’altro, arriva da chi accusa i ragazzi di essere violenti. Insisto perciò nel sostenere che occorre partire da un’alfabetizzazione emotiva degli adulti, che si interessi della fragilità dei ragazzi, per evitare che eventi del genere si ripetano.

Invece ci aggrappiamo alla convinzione che Internet abbia catturato i nostri ragazzi e che loro non siano in grado di elaborare le emozioni. Nella società della pornografia, vogliamo educare gli studenti all’affettività e alla sessualità in scuole che a volte non sono neppure collegate ad Internet, mentre noi adulti, per primi, viviamo su Internet, lanciamo appelli da Internet, vendiamo libri su Internet… Non c’è identificazione, è una società dissociata in cui i giovani non possono parlare.

Ricondurre il gesto violento di un figlio a una presunta cattiva educazione da parte dei genitori è sensato o si tratta di una semplificazione? È giusto cercare la colpa nei genitori?

È un’enorme semplificazione. I modelli educativi derivano non solo dalla famiglia e dalla scuola, ma anche dalla società, da Internet, dalla televisione… e occorre interrogarci sui modelli che presentiamo ai giovani. Detto ciò, i genitori di oggi sono talmente fragili che non riescono a creare spazi di confronto con i figli, ad ascoltare cosa i figli hanno da dire. Sono impegnati a credere che l’intervento educativo da adottare consiste nello spegnere Internet e il cellulare, senza considerare che Internet e la pandemia sono semplicemente i grandi specchi su cui abbiamo proiettato le nostre fragilità.

È ora di introdurre un’educazione affettiva, sessuale ed identitaria che integri i temi del patriarcato e del possesso (tipici del genere maschile) con una complessità sociale e con la consapevolezza di un’assenza di alfabetizzazione emotiva negli adulti.

Dopodiché, le storie individuali sono, appunto, “individuali” e vanno analizzate singolarmente, non per generalizzazioni.

A partire da che età andrebbero proposte le lezioni di “educazione alle relazioni”?

Deciderlo spetta al Parlamento. Sarebbe utile almeno dalle secondarie di primo grado, anche se alcuni ritengono sia già tardi. In ogni caso, se le lezioni consistono in un’oretta a settimana con Internet spento e un insegnante che entra e spiega: “devi rispettare l’altro”, rischia di non funzionare, o essere controproducente. Se vogliamo davvero ottenere dei risultati, dobbiamo intervenire nella società che abbiamo creato, non in una scuola isolata dove un insegnante, un pedagogista o uno psicologo propone una lezioncina dall’alto in basso, con Internet spento “perché distrae”, annoiando la platea dopo dieci secondi, senza riuscire ad attivare e ad ascoltare realmente i ragazzi. Ecco perché parlo dell'urgenza di un’alfabetizzazione emotiva degli adulti.

È facile entrare in classe e proporre slogan del tipo: “i maschi e le femmine hanno gli stessi diritti”, “la violenza è sbagliata”, “una donna non si tocca neanche con un fiore”. Ma se andiamo avanti a pensare che la risolviamo con conferenza stampa nelle classi, assisteremo sempre di più ad avvenimenti come questo perché la matrice è una crisi identitaria senza precedenti, del maschile in particolare, e una violenza insita nella società. Dobbiamo trovare il modo per aiutare i ragazzi a non seguire questa violenza.

Quali sono i segnali, anche i più innocui, che possono far presagire la presenza di un disagio o di un campanello d’allarme?

È una domanda che mi sento ripetere da 31 anni. Quando avvengono casi di ritiro sociale, suicidio, tagli, i campanelli d’allarme si immaginano a posteriori. Se i ragazzi coltivano un disagio nella mente non è automatico accorgersene prima. Non mi sentirei mai di affermare che questi genitori – sia di lui che di lei – abbiano intercettato o sottovalutato un disagio. Penso che a colpire l’opinione pubblica sia la percezione che lui fosse un “ragazzo come tanti con qualche timidezza". Se fosse stato fuori di testa non saremmo qui a cercare di dargli un senso.

Perché gli uomini si sentono attaccati?

Uomini, genitori, ognuno cercherà la colpa. Io mi sento attaccato come essere umano quando vedo che davanti a drammi tanto terribili e in una pornografizzazione" del dolore (a cui quindi le nuove generazioni sono esposte ed educate) la gente anziché riflettere, lancia strali e accuse, pensando di avere già capito tutto. L’obiettivo da perseguire è educare le nuove generazioni ad accettare le fragilità, non colpevolizzare la mamma, il papà, la scuola, l’insegnante. Sono modalità per non riflettere, sono agiti verbali, meno violenti di un cazzotto, ma violenti. Oggi, in una complessità senza precedenti, ce lo dimentichiamo. Quello che è accaduto dovremmo utilizzarlo per fare prevenzione, per investire del tempo a ragionare con i nostri figli, con i nostri studenti, che sono tra l’altro colpitissimi dall’accaduto. La prevenzione è il più grande degli investimenti, eppure temo che l’accaduto si tradurrà in un'evacuazione di slogan.

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Rachele Turina
Redattrice
Nata a Mantova, sono laureata in Lettere e specializzata in Filologia. Antichità e scrittura sono le mie passioni, che ho conciliato a Roma, dove ho seguito un Master in Giornalismo concedendomi passeggiate fra i resti romani (e abbondanti carbonare). Il lavoro mi ha riportato nella Terra della Polenta, dove ho lavorato nella cronaca e nella comunicazione politica. Dall’alto del mio metro e 60, oggi scrivo di famiglie, con l’obiettivo di fotografare la realtà, sdoganare i tabù e rendere comodo quel che è ancora scomodo. Impazzisco per il sushi, il numero sette e le persone vere.
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